Italiani, popolo di santi, navigatori e poeti ma soprattutto di grandi inventori, che hanno scavato la roccia per ricavare spazi abitabili, ma ancora di più, che hanno reso disponibile una risorsa primaria come l’acqua, in una zona impervia e arida.
Siamo a Matera, amici dell’Ordinario, e vi vogliamo raccontare la storia del «Palombaro lungo», l’antico serbatoio sotterraneo della città, con la sua rete idrica annessa, che è valso alla città il titolo Patrimonio Mondiale dell’Umanità, tutelato dall’Unesco dal 1993.
La rete idrica della città lucana fu progettata fin dai tempi più remoti ed era in grado di sfruttare al meglio ogni goccia d’acqua, raccogliendo sia quella piovana che quella di condensazione. L’utilizzo di tecniche sempre più raffinate, nonché la capacità di raccolta e conservazione sotterranea delle acque sono rimaste esemplari.
Nel corso di un piccolo piovasco che ci ha colto mentre eravamo in visita alla città, abbiamo potuto assistere con i nostri occhi allo scorrere repentino delle acque che scendevano rapidamente lungo le canalette di scolo per convogliarsi nelle cisterne presenti all’interno di ogni «sasso». Malgrado la quantità di pioggia esigua, l’acqua zampillava in vivaci cascatelle, nessuna goccia andava perduta, frutto di una costruzione ingegneristica di altissimo livello formata da acquedotti, cunicoli e cisterne sotterranee che ha permesso agli abitanti del luogo di convivere da sempre con la scarsità d’acqua tipica della zona, aggravata ancor di più dal suo complicato posizionamento.
Il palombaro di Matera – questo il termine con cui si indicano le cisterne antiche – è il più grande d’Europa e coi suoi 18 metri d’altezza e 50 di larghezza poteva contenere fino a 5 milioni di litri di acqua.
Un vero e proprio scrigno sotterraneo collocato sotto la parte antica della città (Piazza Vittorio Veneto) e definito la “Cattedrale dell’acqua”.

Fu realizzato nel 1846, grazie all’opera di Monsignor A. Di Macco, come riserva idrica pubblica, a sostegno degli abitanti del Sasso Caveoso. L’etimologia del termine Palombaro, d’altronde, non lascia spazio a dubbi, deriva dal latino “plumbarius“, colui che rivestiva con il piombo le condutture che portavano l’acqua dagli acquedotti alle case, alle fontane e alle terme.
Rivestito di un materiale detto cocciopesto, un’ amalgama di argilla e paglia, aveva pareti impermeabili, per evitare che l’acqua venisse assorbita dalla rocce calcaree porose.
I palombari raccoglievano acqua anche quando non pioveva, sfruttando la condensazione e il fenomeno dell’escursione termica, di giorno e di notte. Il sistema idrico prevedeva addirittura due tronconi, uno per il Sasso Barisano e l’altro per il Sasso Caveoso, con cisterne lungo il tragitto dotate di canaline che permettevano di spostare l’acqua, in caso di sovrabbondanza. La rete utilizzava poi un sistema di vasi comunicanti, efficace anche per filtrare i detriti.
Quando nel 1927 fu realizzato l’acquedotto, la grande cisterna non venne più utilizzata e fu dismessa e chiusa fino a quando, in tempi recenti (nel 1991 la prima esplorazione), è tornata a vivere offrendo ai turisti la meraviglia delle sue enormi cavità.
Accessibile attraverso una rete di scale, si inoltra nel ventre della montagna: qui passerelle sopraelevate consentono di attraversare specchi d’acqua piovana che ancora intercettano le acque di superficie. Uno spettacolo unico che vi consigliamo assolutamente di non perdere qualora vi trovaste a passare dalla splendida città lucana.