Le avventure di Behemoth (3). L’origine della felicità

Ci siamo, è uno di quei giorni lunghi, noiosi. Dove non succede un granché e si deve solamente aspettare la sera per poter cenare e poi dormire. Oggi va così: il giorno è lento, io annoiato, senza energia per fare alcunché. Cammino per la Tverskaya, una delle grandi arterie di Mosca che porta al Cremlino, la via che gli zar utilizzavano con le loro carrozze per andare a San Pietroburgo.

Le auto corrono sulle sei corsie rumorose e polverose. Giro a destra ed entro nel quartiere, è più tranquillo, ci sono cortili e giardini molto più silenziosi e meno stressanti della strada principale. Mi aggiro senza meta tra palazzi e architetture completamente differenti tra loro, incrocio persone che nemmeno mi vedono. Una in particolare però attira la mia attenzione: un ragazzetto che cammina con il mio stesso obiettivo: niente. Passeggia con il naso rivolto al cielo rischiando di inciampare in qualche mattonella sconnessa, ma non sembra preoccuparsene. E’ abbastanza piccolo per la sua età, magro, minuto, penso che abbia circa dieci anni. Un ragazzino biondo, esile, che si aggira per i cortili interni dei palazzi con movimenti rapidi e nervosi. Indossa un maglione blu con sottilissime righe nere orizzontali e una maglietta rossa che sborda in basso, dalle maniche e dal collo, decisamente logora e che, evidentemente, necessita di sostituzione. Calze e pantaloni sono pesanti, invernali, nonostante le temperature non siano più rigide in questa fine di inverno anomalo dove la neve raramente si è fatta vedere.

Continuo a seguire da lontano il ragazzino di cui non conosco il nome, la provenienza o la famiglia. Resto distante e mi muovo furtivo, come solo un gatto sa fare; il mio obiettivo adesso è non perderlo d’occhio. Lui non se ne accorge e continua a vagare, fotografando incessantemente gli alberi, i rami, i ceppi. Osservandolo meglio, capisco che in realtà cerca le ferite, le crepe, le fessure dei tronchi e dei rami. Ferite vecchie e cicatrizzate, oppure nuove e ancora fresche di resina. Non parla con nessuno e nessuno sembra accorgersi di lui. Continua con la sua attività: cammina, cerca, fotografa e passa oltre. Adesso so cosa fare, la giornata senza un perché ha trovato il suo scopo, rafforzando l’idea che l’importante sia muoversi e cercare cose non si conoscono. A un certo punto, nel mio tentativo di nascondermi meglio, lo perdo, com’è possibile??!Scappato, svanito, evaporato. Me ne faccio una ragione, finisco la mia passeggiata e me ne torno a casa.

I giorni passano e quasi mi dimentico di quell’incontro, ma poi lo rivedo nei giardini di Zvetnoy Boulevard, una piccola striscia di verde incastonata tra due strade, un circo e alcuni centri commerciali. Eccolo lì, è proprio lui, vestito nello stesso identico modo. Sembra quasi che siano passati solo pochi minuti dal primo avvistamento. Questa volta non posso perderlo, devo sapere chi è, cosa fa e soprattutto perché. Non può certamente vivere da solo, ma così piccolo si aggira per una megalopoli in assoluta autonomia senza curarsi di nulla. Perché fotografa le ferite degli alberi? Sfodero la mia arma principale da gatto, coda sinuosa, movimenti lenti e fusa, mi avvicino e dolcemente cammino tra le sue gambe, chi può resistere a un gatto così.

Cazzo! Mi ha calpestato, che dolore! Non mi ha nemmeno visto, ha cambiato direzione e tac, la mia zampa sotto il suo piede, che male selvaggio! Mi lecco velocemente per attenuare il dolore, ma non voglio perderlo di vista questa volta. Salgo sull’autobus con lui, quasi due ore per un percorso che in metropolitana sarebbe durato forse, sì e no, venti minuti. Siamo nella zona sud del centro storico, i palazzi sono ancora signorili ma iniziano a esserci i primi appartamenti adibiti a komunalna. Si tratta di abitazioni in cui ogni stanza è occupata da un nucleo famigliare differente, bagno e cucina in comune e tutta la vita si svolge in una stanza con la porta ben chiusa e nascosti da ogni sguardo indiscreto. Lo seguo, questa volta senza farmi vedere. Nel frattempo lui è entrato in una delle abitazioni. Lo raggiungo in cucina dove lui accende il bollitore e prepara un tè. fatto questo si dirige in una pseudo-camera, spartana: un divano che funge anche da letto, un piccolo guardaroba, uno specchio, un tavolo con due sedie impagliate probabilmente al tempo degli zar e il frigorifero dove si conserva un po’ di tutto. La mia attenzione è tutta per un tavolo ricoperto da decine di fotografie. Lei me la perdo così, all’inizio, poi la vedo: distesa sul sul letto, avrà circa 15 anni, indossa un pigiama felpato e pantaloni a scacchi rosa e verde. Non sembra malata o aver qualche problema particolare, ma sicuramente non è una ragazza che esce molto di casa. I due non si parlano molto, a parte qualche convenevole.  Continuo a spiare quella scena familiare. Noto che lui porta le foto a lei e lei le “completa”, come a disegnarle.

Passano circa 30 minuti ed esco senza aver capito nulla.

Nelle settime successive incontro ancora il ragazzo, di nuovo fotografa gli alberi e le loro ferite e poi prende l’autobus; nulla di diverso, non lo seguo. Arriva la primavera e per qualche ragione sugli alberi, ma soprattutto sulle ferite, compaiono disegni coloratissimi: fiori, paesaggi fantastici, piccoli animaletti, laghi o cieli stellati.  E allora, all’improvviso, capisco!.

Non incontro più il ragazzino. Un giorno per curiosità vado a vedere nel loro appartamento, non trovo nessuno. La stanza è completamente vuota, i listelli di legno del pavimento sono curvati dall’umidità, muffa e ragnatele sono decisamente gli unici padroni di casa, sembrano anni che nessuno vive in quel posto.

La primavera avanza, i fiori sbocciano e le foglie hanno quel verde chiaro di novità e vitalità, sono morbide e lucide. Intorno ai dipinti degli laberi le persone si siedono, bevono il tè dal termos portato da casa, si fanno selfie e qualcuno completa le immagini a proprio piacimento. Vecchi ceppi marci diventano tavolini o si trasformano in funghi fantastici, cieli e paesaggi si aprono all’interno delle cavità dei tronchi. Le persone sono felici, i disegni sembrano emanare gioia e serenità a chi ci passa accanto, forse è solo una mia illusione, ma sembra realtà. Non è poi così importante da cosa sia prodotta la felicità, l’importante  è che ci sia.

Non ho mai più rivisto il ragazzo né qualcuno è più andato ad abitare in quella stanza.

Ps. Gli alberi disegnati, in alcuni parchi di Mosca, esistono veramente e sono come quello in foto.

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