C’era una volta un grande centro medico, era pubblico, era della Asl Liguria e nello stesso luogo potevi trovare l’ambulatorio ginecologico, il centro prelievi, gli infermieri, il cardiologo, l’ortopedico, il pediatra e il centro di igiene pubblica.
C’era una volta questo grande centro, vi si accedeva da una «porta» e questa «porta» era accanto a quella del mio ufficio.
I tagli, le riorganizzazioni e gli «efficientamenti» (come li chiamano) che si sono susseguiti negli anni, lo hanno progressivamente ridotto e ridimensionato: oggi è rimasto solo il centro prelievi e gli infermieri.
Le mie prime «storie della porta accanto» sono nate proprio qui, ricordando il via vai continuo di persone, adulti e bambini che nel corso del tempo hanno frequentato questo ambulatorio e che inevitabilmente, sbagliando, si sono presentati alla mia porta. La mia risposta alle loro richieste era diventata ormai una frase di rito: non da me, dovete andare alla porta accanto.
Se chiudo gli occhi, soprattutto ora che la porta d’ingresso è chiusa a chiave e per entrare nei nostri uffici ci vuole l’appuntamento, mi sembra di sentire ancora il vociare delle persone.
Mariella arrivava sempre di corsa, con un bambino in braccio e un altro nel passeggino, cercava la pediatra, i bimbi dovevano fare i vaccini: «Vengo qui perché questa dottoressa è veramente brava, ci sa fare, l’ultima volta Marco non ha neppure pianto».
Questa volta invece abbiamo sentito le grida persino al piano terra, un pianto disperato che neppure l’infermiera riusciva a consolare e mentre Marco continuava a piangere convulsamente, qualcuno ha bussato alla mia porta.
«Posso stare qui?» era il piccolo Mattia, chissà come si era liberato dal passeggino della mamma.
«Ma la mamma lo sa che sei qui?»
«No, ma io di là non voglio proprio starci. Lo sai che ti fanno una puntura in una gamba? I grandi parlano, parlano e poi zac! Ti bucano, lo sai che ti bucano?»
E’ rimasto qualche minuto nel mio ufficio, giusto il tempo per veder arrivare Mariella con Marco in braccio, due grandi occhioni ancora pieni di lacrime.
Da quel giorno nel mio ufficio non mancano mai le caramelle, nel caso qualche piccolo amico si trovi a dover fuggire da una delle «porte accanto».
Tra le persone che arrivavano puntuali quasi tutte le settimane, c’era Cesira, una signora anziana, capelli bianchi completamente scompigliati e soprattutto senza più nessun dente in bocca.
Passava tutte le mattine a salutarmi e a raccontarmi qualcosa che sinceramente non ho mai compreso, il fatto di essere sdentata le impediva di articolare bene le frasi e le parole, parlava anche venti minuti durante i quali io ho sempre annuito per non metterla in difficoltà ma ancora oggi non vi so dire che cosa mi stesse raccontando.
Gino invece era stato per molto tempo all’ospedale, ora doveva fare dei controlli cardiologici costanti, per prima cosa è passato nel mio ufficio a salutarmi. Ovviamente mi ha raccontato tutti i suoi disturbi, le diagnosi dei medici e la lunga riabilitazione che lo attende. Da quando è stato male ha sempre freddo e allora, anche se siamo già in estate, sta continuando ad indossare la «maglia della pelle». Mentre lo dice alza la camicia per farmela vedere e se non sono veloce a fermarlo di sicuro mi fa vedere anche la cicatrice che ha nel petto.
Ci sono clienti abituali, quelli che devono fare i controlli settimanali e che dunque ormai sanno come muoversi e dove andare, poi ci sono quelli nuovi.
Un particolare pensiero va a questi, che si fermano alla prima porta che trovano senza guardare se è quella giusta e che mentre sto scrivendo al computer entrano in ufficio e mi lasciano sulla scrivania i loro contenitori delle «feci» o come dicono loro «ecco qua il materiale» o gli svariati tipi di bottigliette, fialette o quant’altro per le urine.
«No, non dovete lasciarli a me, dovete portarli alla porta accanto!» ormai non so più quante volte ho ripetuto questa frase.
«Scusi, ma non può portarla lei nell’altra stanza? Io ho fretta devo andare a lavorare»
«No, forse non ha capito, qui è il Comune, proprio un’altra attività, si riprenda il contenitore e lo porti all’ambulatorio».
Qualcuno arrossisce, qualcuno finalmente legge quello che c’è scritto sulla porta, altri sorridono e si scusano.
«Fa niente, ormai ci sono abituata» e anch’io sorrido insieme a loro.
Ma la più bella di tutte è stata Jasmine, una giovane e timida ragazza che entrando nel mio ufficio mi chiede: «Dove devo mettermi?»
«Finisco di scrivere questa lettera – le rispondo. Si metta pure lì sulla sedia di fronte».
Rimane in piedi e mi guarda perplessa.
Non capisco, forse non mi ha sentita. «Si può mettere nella sedia di fronte» le ripeto.
«Ma non sarebbe meglio un lettino? La mia amica mi ha detto che dobbiamo sdraiarci in un lettino. Sa per me è la prima volta ma mi creda ero convinta che ci sarebbe stato un lettino»
In quel momento mi si è accesa la lampadina e ho capito che avevo di fronte l’ennesimo caso di «porta accanto».
«Scusa – le domando – ma cosa devi fare?»
«Visita ginecologica e pap-test».
«Perfetto, devi andare alla porta accanto».
E mentre lei esce aggiungo: «Vai tranquilla, di là c’è il lettino».