Tappeti volanti (3). Alla ricerca dei pini perduti

Benvenuti al nostro appuntamento settimanale.

Oggi dedicheremo un po’ di attenzione alla materia di cui sono composti alcuni dei nostri tappeti volanti; in questo modo non scopriremo certo dove si trova il segreto della loro magia, però potremo familiarizzare con alcune delle loro caratteristiche.

Dal momento che a livello lessicale esistono parecchie somiglianze tra il linguaggio utilizzato in equitazione e quello che usiamo per riferirci ai tappeti volanti (salire, montare, condurre, solo per fare pochi esempi) ho pensato che le analogie potessero andare anche oltre il semplice livello linguistico. In entrambe le attività è molto importante conoscere il carattere e il modo di pensare del soggetto con cui vogliamo interagire, si tratta di una vera e propria collaborazione, sia che si prenda l’esempio di un cavallo o quello di un tappeto, sopratutto se volante; non a caso si utilizza l’espressione “binomio” per indicare l’unione, la coppia formata da cavallo e cavaliere.

Questa unione è fatta di rispetto reciproco e inizia da terra, ad armi pari, nessuno monta sopra nessun altro prima di aver fatto conoscenza. È una conoscenza che deve essere fatta sia con il singolo individuo, sia con la particolare razza di cui questo fa parte all’interno della solita specie.

La stessa regola vale per i tappeti volanti, pensare di poter far di loro ciò che vogliamo basta e avanza per essere scaraventati in aria e finire dolorosamente a terra.

Durante l’ultimo giro fatto nel bosco, avevo familiarizzato con alcuni di loro; erano tutti costituiti da lecci (Quercus ilex), mi circondavano con la disinvoltura tipica di chi si sente parte integrante di un luogo, raramente ho visto così tanta bellezza portata con altrettanta disinvoltura. È una sensazione meravigliosa quella che si prova ad essere attorniati da milioni di foglie di leccio, si percepisce tutta la potenza di una pianta maestosa che vive grazie alla delicatezza di ogni sua piccolissima foglia.

Ogni tanto tra i lecci avevo notato qualche frassino ossifillo (Fraxinus angustifolia) alternato alle farnie (Quercus robur). In lontananza avevo visto spesso gruppetti di ontani neri (Alnus glutinosa), facevano sempre comunella tra loro: avevo ingenuamente pensato di realizzare qualche tappeto volante anche con questi, ma giunto in prossimità della zona in cui si trovavano mi ero reso conto di aver sottovalutato la portata dell’impresa; quello che sembrava fino a pochi metri prima un arido bosco si era trasformato ai loro piedi in un vasto e assai profondo acquitrino. Impossibile passeggiare in mezzo agli ontani se non immergendosi completamente nell’acqua.

Dalla prima uscita ero tornato indietro felice ma per certi aspetti un po’ stupito; non ero rimasto deluso dagli incontri fatti, tutt’altro, avevo incontrato una varietà di alberi ben maggiore di quanto mi aspettassi, però inizialmente ero partito supponendo di entrare in una pineta. Ingenuamente pensavo che avrei trovato dei pini, quali e quanti non avrei saputo dire. Essendo cresciuto vicino alla costa Toscana, e trovandomi ancora a girare per questi luoghi, ho sempre considerato come un dato di fatto acquisito quello che vede nella successione mare – sabbia – pineta una sorta di assioma universale, tanto che di fronte a tre semplici pennellate parallele di colore blu, giallo e verde, io immediatamente reagisco sentendo il rumore del mare, il caldo della sabbia e il frinire delle cicale.

Dovevo quindi capire se queste coordinate impresse nelle mie mappe mentali avevano ancora un senso o erano da aggiornare; ecco perché il secondo giro dedicato alla ricerca dei tappeti volanti è stato fatto esclusivamente inseguendo i pini domestici (Pinus pinea).

Si tratta certamente di una questione ambientale – nel senso ampio della parola – ma allo stesso tempo anche personale. I primi alberi di cui abbia saputo identificare il nome quando ero bambino erano proprio dei pini, si trovavano nel giardino dei miei nonni, a una distanza di circa 150 metri dal mare; in mezzo, ovviamente, c’era una striscia gialla di sabbia. Adesso i nonni non ci sono più – e questo era prevedibile – ma non ci sono più nemmeno quei pini, nemmeno tanti altri che prima popolavano quella zona, e questo era meno prevedibile, almeno per me. Non avendo alcuna voglia di abbandonare questo mondo per andare a scoprire dove si nascondano i miei nonni, ho pensato che sarebbe stato più saggio dedicare un minimo di energie a scoprire invece dove fossero andati i pini. Per farlo mi sono documentato un po’ sulla loro storia e ho scoperto delle notizie interessanti che prima di lasciar spazio alle immagini vorrei condividere con voi.

Tutti noi siamo abituati a considerare come domestico ciò che si trova entro il nostro raggio d’azione, all’interno del perimetro della nostra casa – la domus, appunto – o nelle sue immediate vicinanze. Quello che sta fuori da questi confini rientra nella silva, la selva, il bosco. È una distinzione che abbiamo dovuto imparare a fare migliaia di anni fa e che continua a essere centrale nella nostra visione e gestione del mondo; chi appartiene a una categoria difficilmente rientra nell’altra, pensiamo agli animali, o sono domestici o sono selvatici. Inserirne uno nell’ambiente dell’altro è garanzia di qualche guaio.

Questa constatazione sembrerebbe sgombrare il campo da eventuali dubbi sul mondo vegetale: gli alberi in particolare – benché popolino anche i giardini – appartengono ovviamente al mondo della silva, ne sono anzi i principali rappresentanti e prosperano tranquillamente senza i nostri interventi.

Come sempre però esistono delle eccezioni.

Il Pinus pinea nell’antichità romana era associato a una divinità di origine anatolica, Cibele, la dea ambivalente della forza creatrice e distruttiva della Natura. Ignoro i motivi di questo abbinamento, ma non posso non rilevare come l’ambivalenza sia passata dalla dea all’albero stesso che ne è diventato un vero e proprio concentrato. A partire già dal nome comune con cui lo identifichiamo: pino domestico, un tentativo di tenere assieme i concetti apparentemente antitetici di domus e silva. In effetti l’aspetto più selvatico di questo pino, ovvero che si accontenti di terreni poveri e riesca a crescere anche isolato in condizioni molto difficili – come sui suoli sabbiosi – si accompagna al fatto che la sua propagazione avviene quasi esclusivamente per mano dell’uomo.

Già alle latitudini dell’Italia centro settentrionale, si forma un sottobosco assai denso che rende facile l’evoluzione della pineta stessa verso un bosco composto da lecci e arbusti, sopratutto viburno, lentisco e filliree. In questo modo, lentamente ma con costanza se non si interviene, la pineta cambia aspetto, trasformandosi in una foresta mediterranea. 

Questa specie infatti per prosperare ha bisogno della nostra collaborazione, da sola non riesce quasi mai a trovare le condizioni ideali per riprodursi, nonostante questo è considerata come una delle più tipiche dell’area mediterranea. 

Il pino domestico – come tutti i pini – è una conifera, un genere di alberi sempreverdi la cui evoluzione è stata originariamente influenzata da climi con inverni rigidi e molto lunghi; da qui, in vista dell’arrivo della breve stagione calda, nasce la necessità di farsi trovar già pronti per la fotosintesi al momento del disgelo; non ci sarebbe il tempo per aspettare la ricrescita annuale delle foglie, fondamentale partire subito con la fotosintesi. Questa strategia è ovviamente sempre valida per tutte quelle conifere che si trovano a vivere in contesti del genere, ma il nostro pino domestico ha ormai decisamente cambiato areale di appartenenza, sapendosi riadattare molto bene al nostro clima. Anzi, adesso soffre il freddo, tanto che oltre i -12° può subire danni preoccupanti.

Infine un altro elemento ambivalente che trovo affascinante, a suo modo anche divertente. Intratteniamo rapporti con questo albero da millenni ormai, lo abbiamo scelto per rappresentare una nostra antica divinità, per proteggere le coste e per elevarlo a modello di paesaggio estetico di qualità, tanto che alcune regioni italiane si richiamano esplicitamente ad esso per rappresentare la propria identità paesaggistica.

Eppure, se di identità vogliamo parlare, ce n’è una che davvero ci sfugge, ed è proprio la sua, quella del pino domestico: nessuno sa da dove provenga esattamente, c’è chi dice dalla penisola iberica, chi ne colloca l’origine tra Turchia e Libano, alcuni indicano la Sardegna, altri ancora la Toscana. Non si sa.

Che buffo, tutti a cercar di competere tra loro per legare la propria identità a quella di un albero la cui identità in realtà ci è sconosciuta. L’unica cosa sicura è che i suoi maggiori popolamenti si trovano nei pressi di aree storicamente legate a commerci marittimi: Ravenna, Messina, Castiglione della Pescaia, Pisa e Portixeddu – Buggerru.

Pensavamo di saper tutto del pino domestico, in realtà forse è lui che sa tutto di noi.

Un’altra delle molte ambivalenze di questa pianta, così terrena eppure così amante dei viaggi per mare.

Adesso prendiamoci la libertà di fare noi un viaggio tra le sue braccia grazie ai nostri tappeti volanti; i rami possono essere forti e grandi, ma gli aghi sono sempre leggeri, morbidi da fare il solletico, la luce attraverso di loro filtra in un modo tutto particolare, è come se si scomponesse in minuscole e infinite particelle, dopodiché si verifica un effetto strano, non esiste più né la luce né l’ombra, ma una cosa nuova composta da entrambe; non so come si chiami, non so nemmeno se abbia un nome, né se sia giusto darglielo ma penso di no, ‘che a forza di dare un nome a tutte le cose poi si perde un po’ di quella magia dell’ignoto che serve per sognare.

Tappeto Volante #6_Foto di Filippo Brancoli pantera
Tappeto Volante #7_Foto di Filippo Brancoli Pantera
Tappeto Volante #8_Foto di Filippo Brancoli Pantera
Tappeto Volante #9_Foto di Filippo Brancoli Pantera
Tappeto Volante #10_Foto di Filippo Brancoli Pantera
Tappeto Volante #11_Foto di Filippo Brancoli Pantera

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