La quarantena forzata sta portando molti di noi a compiere tutte quelle faccende che nel corso degli anni abbiamo sempre rimandato. Le famose faccende della lista: “Cose da fare!”
Quella lunghissima scheda, scritta a mano, creata dalla moglie o dalla fidanzata e che ogni marito, uomo o fidanzato che si rispetti non porterà mai a termine nel corso di una sola vita, passando quindi l’arduo compito agli eredi futuri.
Proprio per combattere la monotonia, decido di dedicarmi a completare quella maledettissima lista, spina nel fianco da parecchie generazioni; già mia nonna iniziò ad appuntarci i primi compiti nel ’65: riordinare la cantina, mettere a posto l’armadio, aggiustare la porta del garage, c’era l’imbarazzo della scelta e per tutti i gusti.
Il mio problema, però, con questo tipo di attività, è che continuo a cadere nei ricordi di ciò che mi capita sotto mano. Succede sempre, che si tratti di un vecchio giocattolo (salvato dal mercatino per un valore affettivo) o di cascame proveniente da chissà dove (messo in un angolo perché non si sa mai che possa tornare utile come pezzo di ricambio), inizio a vagare con la memoria, quasi come se fossi Anton Egò
nel film di Ratatuille, mangiando l’omonimo piatto del ristorante Gusteau.
Ora sono in cantina, circondato da vecchi libri, intento a farne una cernita scegliendo quali mandare al “macero” e quali tenere.
Finchè un vecchio libro di scuola s’impunta, mettendomi in difficoltà. E se un libro decide di rovinarti la giornata, puoi star tranquillo, ci
riuscirà! Lui, il libro, è “Il tomo del buon grafico” (così lo chiamavo) il manuale del progettista, il manifesto del pubblicitario moderno, la bibbia del markettaro, il libro d’indirizzo durante la mia avventura al liceo.
Ricordo che appena finiti gli studi non volevo più vederlo, ero disposto a tutto pur di togliermelo dallo zaino e dalla memoria.
Avevo passato più ore su quel manuale che a studiare per tutte le altre materie, era diventato un po’ un’ombra costante che si sedeva al mio fianco durante le ore di lezione… Quel maledetto libro. Mi fa senso riaverlo fra le mani, riavere quelle settecento pagine di pura tortura di nuovo davanti agli occhi. Prendo il libro e lo butto violentemente nel cesto di quelli da scartare, lo lancio con un’immotivata violenza. L’eco che fa cadendo probabilmente lo sentono fino al terzo piano del palazzo, seguito da una serie di parolacce da parte mia.
Non m’interessa sapere che il libro prova dolore perché privo di corteccia cerebrale somatoestesica primaria, il mio intento è fargli male,
indipendentemente che sia in grado di percepire il dolore o meno!
Subito dopo proseguo con la selezione dei libri, ma poco a poco nella mente iniziarono ad aprirsi i famosi “cassetti della memoria”, quegli archivi che nella serie “siamo fatti così” davano vita a ricordi del passato, e nel mio caso iniziano a riaffiorare i momenti passati in compagnia del professore d’indirizzo, quel matto a cui era stato affidato il compito di spiegarci quel volume scolastico.
Il professor MAGO.
Professore di stirpe, vecchiotto, con occhiali tondi e folti capelli bianchi, sempre vestito “old style” in giacca e cravatta color grigio topo e con una sciarpa probabilmente trafugata da un mercatino delle pulci. Mocassini oxford e zainetto di pelle con tracolla integrata, con l’immancabile registro che sbucava dal suo interno. Lo chiamavamo MAGO per via della sua caratteristica di muovere le mani mentre spiegava i rapporti del formato della carta internazionale. Muoveva le mani di fianco al foglio quasi come se stesse per fare una magia, tutti ci aspettavamo lo girasse da un momento all’altro facendo apparire una colomba, desiderio che non è mai stato esaudito. Ma quel prof. rimase impresso nei nostri cuori per via di una lezione del tutto particolare, al di là della sua parvenza magica. Ricordo che un mio compagno di classe era impegnato a fare la punta alla matita col cutter. Come al solito andavamo al cestino e ci dilettavamo nel produrre “segatura”; la mia classe era responsabile della produzione del 90% degli scarti legnosi dell’istituto.
Quando il professore entrò e vide il ragazzo fare la punta col cutter s’inalberò, iniziando a fumare iracondo da ogni orifizio del viso.
“PERCHÈ FAI LA PUNTA COL CUTTER! CHI TI HA INSEGNATO QUEL METODO DA BARBARI!?”
Il ragazzo, molto timidamente, allungò la mano per prendere la parola e rispose:
“Ehm, veramente ce l’ha detto il professore di disegno! Ci ha insegnato che la punta alla matita la si fa col taglierino!”
Il prof. Mago appoggiò lo zainetto, si tolse la giacca e rimase in camicia. Subito dopo disse: “Beh, e tu quindi la fai col cutter? LA PUNTA ALLA MATITA SI FA COL TEMPERINO! COSI’ DA AVERE UNA PUNTA CONICA PERFETTA!”
Il compagno, dubbioso, si sentì in difficoltà, di contro se ne uscì con: “Lo so! Ma il prof. di disegno ci ha detto che si fa nell’altro modo! Per me, entrambe le versioni sono corrette, ma come faccio io a capire qualè il metodo giusto? Lei mi dice di farla col temperino, l’altro di farla con il taglierino!”
Mago lo guardò titubante, forse comprese le motivazioni del ragazzo, si prese le maniche della giacca, poi guardò e fissò per qualche minuto tutta la classe.
“Vuoi una risposta? Benissimo, ti do una risposta. Guarda la mia camicia! Che cos’ha di strano la mia camicia?”
“Prof. cosa centra la sua camicia con la mia matita?”
“Tu seguimi! Dimmi cosa vedi di strano!”
Noi tutti smettemmo di fare quello che stavamo facendo per cercare di risolvere l’arcano. Cosa poteva avere di strano la camicia del professore? E sopratutto… Cosa ci azzeccava con il discorso della punta della matita?
“Mah, prof. è bianca!”
“Sì, è bianca, ma guardala bene, cos’ha di strano?”
“È stropicciata!”
“Sì, può essere che mia moglie non l’abbia stirata!
Ma guardala bene, cos’ha di strano?”
“Ha una macchia nel taschino!”
“Sì, stamattina mi è esplosa la penna, ma guardala bene, cos’ha di strano?”
Provavamo a tirar fuori mille versioni diverse, nessuna che andasse bene!
“Ragazzi!” Disse Mago dopo qualche minuto di silenzio. “È una camicia da donna, non vedete?”
Noi tutti ci guardammo e rispondemmo in coro: “Da donna?”
“Sì, non vedete che ha i bottoni a sinistra e ha le maniche più larghe?”
Un paio di risatine si fecero largo nell’imbarazzo della classe, imbarazzo interrotto dalla conclusione del prof.
“Ma secondo voi io posso venire a scuola con una camicia da donna? Secondo voi non sono soggetto a un dress code? Secondo voi non ricopro un ruolo istituzionale di un certo tipo che m’impone un vestiario consono al mio lavoro? Pensateci un attimo!”
Il prof. Mago si era dimostrato più magico di quel che pensavamo! Era riuscito con un giro di parole, una camicia ed un po’ di follia a metterci in difficoltà.
“Io vi ho dato due versioni a cui credere” disse lui. “Sta a voi sviluppare il senso critico necessario per capire quale dei due metodi è quello corretto secondo voi! Non prendete per vero quello che vi dicono, cercate sempre di metterlo in discussione! Secondo voi ho la camicia da donna? Spero che ognuno di voi si sia dato una risposta! Quindi, alla domanda, qual è il metodo giusto per fare la punta alla matita… Sta a voi capirlo!”
“Sì, ma lei ha la camicia da donna oppure no?”, concluse il mio compagno di classe.
Quella lezione mi rimase sempre impressa, ancora oggi me la porto nel cuore.
Riuscì a passarmi, in un modo incredibilmente travolgente, un concetto tanto complesso quanto profondo. Lui per primo diceva che non dovevamo farci impostare il cervello secondo schemi precisi, ma sviluppare una libertà che ci permettesse di essere ELASTICI, di capire da soli se la punta alla matita andasse fatta col cutter o col temperino.
Tornando al mio lavoro di “selezionatore di libri”, mi fermo per un attimo a fissare il tomo del pubblicitario. Forse non merita quella fine.
Non tanto per il tempo che mi fece perdere, quanto per i ricordi legati ad esso. Quel libro non è uno di quelli che rileggeresti volentieri, non è un volume che tramanderesti ai tuoi figli, ai tuoi nipoti, non è uno di quei cimeli che metteresti in libreria, ma nel suo piccolo riesce a
rievocare un piacevole ricordo, e insieme ad esso tanti altri. Il ricordo di una lezione che ho sempre ritenuto molto importante e che ad oggi ha condizionato molto il mio approccio alla vita.
“Magari ci penso l’anno prossimo, facciamo che ti tengo fino alla prossima pulizia del garage!”
Con questa frase lo prendo fra le mani, gli dò una pulita e lo riposiziono al suo posto, sapendo già che rimarrà in quell’anfratto in eterno, proprio come il suo ricordo nella mia memoria.
3 Comments
Grazie Daniele,
racconto spassoso, simpatico, e pure educativo. Per me ovviamente, per i vari riferimenti reali… è anche un bel ricordo. Grazie. 😉
Che bello, anche io non riesco a buttare via mai niente perché mi perdo nel mondo dei ricordi!
Bellissimo racconto Daniele…