Che valore ha mai una corona,
se un corvo può fare scempio di un re?
(George R.R. Martin)
LA VERA STORIA DI BURLAMAN
Nessuno va più al Centrale, il vecchio cinema di Viareggio. Tutti preferiscono i multisala, con i loro blockbuster, le poltroncine morbide e i punti ristoro. Per questi ultimi ho un debole anch’io, eppure continuo a venire qua, una mattina al mese, quando trasmettono i documentari sulla città che fu. Mi piace il silenzio, la compagnia di nastri sbiaditi come me, e non voglio deludere il buon Gino. Ci tiene alla sua retrospettiva, come teneva a me anni addietro.
Apro un pacchetto di patatine e torno a concentrarmi sullo schermo. Questa è la mia impresa preferita: Burlaman e il complotto delle sirene. I giornali, all’epoca, si spesero in lodi sulla sagacia dell’eroe che aveva sventato la cospirazione degli Oceanini, popolo abissale confinato sotto la Torre della Meloria, al largo di Livorno, impedendo la loro vendetta a danno dei terricoli, come ci definiscono. Trattengo una risata mentre mi ingozzo di patatine. In realtà, di sagacia ce ne fu ben poca. Quel giorno avevo semplicemente voglia di pesce e mi ero fatto portare al largo da un amico, senza immaginare con cosa avrei riempito la rete.
Eh sì, perché Burlaman sono io, il supereroe viareggino, anche se nessuno lo ricorda più.
«Più grande di Burlamacco!» dicevano.
Di larghezza, aggiungevo io.
«Più veloce di Flash!» mi incitavano.
Sì, nel mangiare un piatto di tordelli della Rina, e ridevo. Ridevo sempre all’epoca e Viareggio rideva con me.
Non mi conoscete? Beh, il vostro portafogli è stato fortunato allora. Mi piaceva andare a pranzo con i fan, anche se al momento del conto tendevano a non esserlo più. Eppure, per diciassette anni ho protetto la costa versiliese, divenendo un simbolo di libertà e di giustizia.
Tutte le città hanno i loro supereroi, tranne Lucca e Genova, troppo tirchie per permettersene uno, e Viareggio non faceva eccezione. Poi, col tempo, molte cose sono cambiate: la vecchiaia, la panza da birra e le maldicenze della gente; ma io non ho rimpianti e rifarei tutto daccapo, non tanto per le laute mangiate con cui festeggiavamo ogni vittoria, bensì per ritrovare lo spirito dell’epoca, lo spirito di una città che mi aveva scelto come protettore e garante dell’armonia.
Lo ricordo ancora oggi, il mio tredicesimo compleanno, il giorno in cui divenni Burlaman. In che modo? Non mi ha morso un ragno, né colpito un fulmine; ho soltanto ingoiato un coriandolo durante una sfilata di Carnevale. Se fosse radioattivo o meno, non l’ho mai saputo, ma di certo aveva un saporaccio. Mi piegai tossendo, mentre mia madre mi batteva sulla schiena per farmelo sputare, poi iniziai a ridere, e da allora non smisi mai, affrontando così la mia nuova vita.
Fu un bel periodo. Di giorno inseguivo i criminali, travolgendoli con la mia risata, aiutavo le vecchiette con la sporta, che mi ricompensavano con una fetta di pecorino garfagnino o con salumi di Gombitelli, e spostavo le barche in doppia fila a suon di rutti.
Di notte vegliavo sulla città, ma non c’era molto da fare, grazie al mio nome che incuteva terrore nell’animo dei furfanti, per cui finivo per addormentarmi sotto il portone di un palazzo, risvegliato da goderecci effluvi all’apertura del mercato. Una volta mi fu chiesto di drenare il porto e non fu un bello spettacolo: aggrappato al molo, col culo a mollo, scaricai le rumorose conseguenze della fagiolata della sera prima. Ma il risultato fu ottimale e per anni non ci fu bisogno di ripulirlo.
Anche ai turisti piacevo. Venivano da tutta la Toscana per ammirare il grande Burlaman, in tenuta da supereroe, in realtà un costume da bagno di mio padre, l’ideale per coprire le macchie di sughi e salse con cui lo imbrattavo di continuo, e per toccare il suo fisico da modello di Botero. Ero piacente, diciamo così, e sempre sorridente. Soprattutto di fronte a un pasto gratis.
Fecero maschere con le mie fattezze, mi intitolarono pizze e trattorie e realizzarono un carro del Carnevale in cui sconfiggevo l’orda degli Oceanini, reggendo con l’altra mano un piatto di lasagne appena sfornate. Emisero dei francobolli con la mia effige, di quelli che, se li leccavi, sapevano di sugo, e si parlò persino di realizzare un lungometraggio; il giorno delle selezioni la fila delle comparse riempiva i Viali a Mare. Poi ci fu l’incidente con la Gamba Gialla e la fila si disperse, del film non se ne fece nulla e, rapidi com’erano sorti, i locali in mio onore chiusero i battenti.
Eccolo lì, il mio tallone d’Achille. Avrete capito che mi piace mangiare, a chi non piace, in fondo? Mica voglio morire a stomaco vuoto! E per correr dietro ai banditi, dovevo rifocillarmi! Insomma, c’era quest’enorme gallina che imperversava nei campi, distruggendo le colture e danneggiando le serre. Gli agricoltori avevano provato a scacciarla, rimediando sonore beccate, ma quella bestiaccia aveva il diavolo in corpo, fomentata dal linchetto, suo emissario.
Così mi chiamarono, ma mentre correvo in loro aiuto vidi un carretto di dolciumi, di quelli che oggi non passano più, dove facevano il croccante lì per lì, bello fumante, e lo zucchero filato di quello buono. Ingolosito, mi fermai, due minuti non di più, il tempo di azzannare quel delizioso croccante con le noccioline, e in quella la Gamba Gialla beccò una bimbetta troppo curiosa, e tutti i parenti a piangere disperati perché l’aveva sfregiata. A dirla tutta, brutta era e brutta rimase, anche con quel livido sul collo, che almeno poteva spacciare per un succhiotto, ma il parentame non la pensò così e, dopo aver sconfitto la Gamba Gialla e averla messa a rosolare su un enorme spiedo, mi fecero tutti una partaccia, urlandomi quanto li avessi delusi. Poi, senza neanche offrirmi un pezzo di quella carne succulenta, mi cacciarono, tirandomi dietro verdure marce.
Da lì, il vuoto. Nessuno mi chiamò più, soltanto i proprietari delle trattorie affinché pagassi quel che m’avevano offerto. Non fecero più carri in mio nome, né balli in strada. Quando mi incrociavano, i passanti si limitavano a un sorriso tirato e poi via, neanche avessi la peste. Nessuno voleva finire come la bimba sfregiata, nessuno voleva accanto un pasticcione avventato. Così appesi il costume al chiodo, e mia madre finalmente poté lavarlo, sgrumandolo per giorni per cacciar via le macchie. Lasciai che mi condannassero all’oblio e che le nuove generazioni crescessero senza sapere chi fossi e ciò che avevo rappresentato per Viareggio.
Qualcuno provò a ricordare le mie imprese, il buon Gino ad esempio, ma erano voci isolate con poca presa sulla massa, che trovò nuovi idoli da venerare: gli emuli di Burlaman. Ne nacquero a decine, attirati dalle luci della ribalta, e io li guardai dal televisore di casa sfilare in costumi sgargianti, più adatti a una sfilata di moda, che non a fronteggiare uno sciame di sirene dalle fauci aguzze.
Duravano poco, è vero, ma facevano chiasso, salutando la folla in delirio dall’alto di un carro di Carnevale, e forse era quello che la gente voleva: un mito da idolatrare, che nascondesse paure e ansie della propria vita. Da quando ho cessato l’attività, Viareggio ha avuto più di trenta pseudo-difensori, tutti durati da Natale a Santo Stefano, tutti caduti alla prima difficoltà. Diceva bene mia madre, quand’ero ragazzetto e il mio fisico tondeggiante iniziava a comparire sui rotocalchi.
«Il successo dura come un piatto di tordelli della Rina. Poco».
Saggia donna. La ricordo con piacere davanti a un rosso di Montalcino.
Sono contento che sia in pace, così non deve assistere allo scempio della sua città. L’aveva predetto, sì, lei sapeva che l’ombra non muore mai, al massimo s’acquieta e trova nuovi modi per attecchire nelle coscienze degli uomini. È questo che è accaduto: invidia, maldicenze e rancore l’hanno sostenuta, e ora impera nell’indolenza dei suoi abitanti. Esco poco ormai, perché mi rattrista vedere cumuli di sporcizia, negozi sprangati e fondi sfitti, una città immersa in un miasma di orrore e malaffare. I campi si sono inariditi, le serre hanno chiuso e la Darsena è stata conquistata dagli Oceanini. Solo l’esercito, schierato lungo il Canale Burlamacca, li tiene a distanza, ma i fondi scarseggiano anche per la difesa e già molti militari se ne sono andati. Quando il cordone difensivo cederà, chi proteggerà Viareggio e i pochi abitanti rimasti?
Non Giosalpino, che dopo la sconfitta con il linchetto, si è rifugiato nella Pineta di Ponente e adesso vive di stenti. Né Rinaldo e Tonino, i miei emuli più coraggiosi, trascinati sul fondo del mare dagli Oceanini durante una sortita. Il tempo degli eroi è finito e molti pensano a come sfruttare i nuovi equilibri, facendo affari con il risorto popolo dei mari. Nick Woland è uno di questi.
Imprenditore, scrittore e filantropo, ha comprato, in pochi anni, mezza Viareggio e vuole espandersi ancora. Alto e snello, rivestito degli abiti migliori, ammalia le donne con verdi occhi senza età, piace agli uomini per le prospettive che offre e alle ragazze, che darebbero via un rene per sfiorargli i morbidi capelli biondi. Eppure, dietro quell’aria rispettabile, io so chi si nasconde.
Ho provato a dirlo, una volta, rompendo il mio isolamento, solo per ottenere risate di scherno.
«Tornatene a dormire, Burlaman!»
Beh, almeno qualcuno si ricorda di me.
Saluto Gino e torno a casa, se casa si può definire il tugurio sul canale che a malapena riesco a mantenere. Eppure un tempo era uno dei palazzi più belli della città, vi soggiornò persino Lord Byron, giunto per presenziare al funerale dell’amico Shelley, naufragato in mare dopo un attacco degli Oceanini. Passo accanto alla Torre Matilde e, come ogni giorno, mi fermo a guardarla, tozza e decadente, pallido riflesso di me stesso, cimeli entrambi di un glorioso passato che non esiste più.
Una folata di vento mi porta a stringermi nel cappotto, scuote le barche ancorate lungo il canale e spezza le fila dei soldati. Per un momento temo un assalto degli Oceanini, poi tutto s’acquieta e mi ritrovo con un volantino in mano, uno dei tanti che Nick Woland ha fatto affiggere in giro.
Guardalo come sorride, con quei denti placcati d’oro, come un avvoltoio pronto a fiondarsi sui resti della città! Oggi sarà a Massaciuccioli, a presentare il complesso residenziale che sorgerà sulle terme romane.
Un tempo nessuno avrebbe permesso un simile scempio, ma oggi a chi importa più di qualche muro di duemila anni fa?
Stropiccio il volantino e lo calcio via. Ecco, sono diventato come lui. Menefreghista verso la mia stessa città. Ma chi può biasimarmi quando i suoi abitanti per primi mi hanno voltato le spalle?
Guardo un’ultima volta i militari infreddoliti e mi chiedo quanti ne moriranno quando gli Oceanini attaccheranno. Lo faranno presto, non appena Woland darà loro le chiavi della città, in cambio di ricchezze. È questo che vuole, oro e gloria, adesso come un tempo. Se l’avessi capito prima, se l’avessi fermato…
Troppi se, ho bisogno di un cappuccino, ma ho finito il caffè e nessuno mi fa credito. Sono un relitto, una di quelle barche prive d’ormeggio che naufragano verso il mare aperto in attesa che le sirene la affondino. Voglio davvero finire così?
Entro nell’appartamento e mi rispondo da solo.
«Contenta, mamma?»
Mi guardo allo specchio e rido; dopo vent’anni, e venti chili in più, il costume mi entra a stento. Zainetto in spalla, con le armi e lo spuntino, mi avvio verso le terme, deciso a farla finita. Sono stanco di sopravvivere. Voglio tornare a vivere o morire provandoci.
Quando arrivo sul lago, è quasi il tramonto, ma riconosco la chioma lucente di Woland. Sta in piedi su un muro sbeccato, a illustrare i vantaggi del suo progetto, e la folla annuisce incantata: cinquanta persone, non di più, i pochi coraggiosi che ancora mettono il naso fuori casa. La sua malia, col tempo, è aumentata; la percepisco, al pari del fetore di stalla che neppure i suoi profumi riescono a coprire, reminiscenza del passato, quando amava stare nelle stalle e fare scherzi agli animali e ai fattori. Scherzi che nessuno ha mai apprezzato e per cui veniva sempre scacciato.
Un rumore nell’acqua mi fa voltare e noto le increspature sul lago, precedute da un aroma di alghe e fango. Rimango nascosto ad ascoltare l’arringa con cui Nick Woland auspica un futuro migliore.
«Per me, almeno» ridacchia.
In quel momento decine di tentacoli escono dal lago, allungandosi verso i presenti, afferrandoli e trascinandoli verso le putride acque sotto cui ribolle un’oscura figura.
«Ricorda, caro Nerone, che siamo soci in quest’impresa» ride Woland. «A te il mare, a me la terra, alle sciocche anime di chi osa sfidarci il cielo».
Nerone? Capisco e mi faccio avanti, per estirpare quell’infida alleanza.
«Mi hanno definito in molti modi. Goffo, grasso e golosone. Mai sciocco» esclamo, attirando la sua attenzione. «Sai cosa faccio ai piatti sciocchi? Li salo!». Metto la mano in un sacchetto e gli lancio una manciata di coriandoli che esplodono al contatto con il muro, scagliando Woland indietro.
«Chi cavolo sei?» ringhia, rialzandosi e ordinando alle guardie di attaccarmi.
«Non mi riconosci? Sono offeso. La pancia è la stessa». Afferro il fucile spara-stelle filanti e faccio fuoco, imprigionando i suoi tirapiedi in un groviglio di corde. Soltanto allora uno dei giornalisti tra la folla sembra riconoscermi, o forse riconosce il simbolo sul mio costume: un mestolo che affonda in una pentola di tordelli.
«Ma è Burlaman! Sei vivo, allora!»
«Vivo, vegeto e affamato. Magari dopo ci facciamo due spaghetti allo scoglio». Woland scoppia a ridere, rotolando a terra tenendosi i piedi. Quando si rialza, del suo bel volto curato e degli abiti eleganti non è rimasto niente. Adesso è basso, tozzo e con un cespuglio di ricci fulvi in testa su cui spuntano due corna aguzze. «Da tempo non ci vediamo, linchetto!»
Lui si avvicina ringhiando, la bocca aperta in un ghigno che ricorda le fauci dell’inferno.
«Non rovinerai il mio piano, Burlaman! Non mi umilierai anche stavolta!»
«E quando mai ti avrei umiliato?»
«Sempre. Eri un grassone fortunato che si prendeva gli applausi della gente mentre io, che mi sforzavo di farla ridere con i miei scherzi, venivo ignorato. Così mi sono nascosto, come volevano tutti, e ho aspettato che ti voltassero le spalle. Perché questo la gente fa. Tradisce».
Gli lancio contro una manciata di coriandoli esplosivi, ma il linchetto è sorprendentemente agile e li evita, balza su di me e mi colpisce con un calcio sul pancione. Un pugno in faccia e cado all’indietro, perdendo il mio prezioso zainetto. Ci infilo la mano al volo e afferro il primo oggetto che trovo, agitandolo davanti alle fauci del linchetto.
«Una forchetta? Carina. La userò per sbocconcellare i tuoi resti!» sghignazza, e mi salta addosso, azzannandomi a una spalla. Premo un tasto sulla posata, che si allunga e diventa il forchettone con cui ho cotto la Gamba Gialla. Forte di quel ricordo, del desiderio di rimediare a una mancanza, lo pianto nel fianco del linchetto, strappandogli un grido di dolore e rabbia. Affondo di più, togliendomelo di dosso e sbattendolo a terra.
Attorno a me regna il caos, con le persone che corrono in ogni direzione per evitare i tentacoli e quelle imprigionate che piangono e pregano per non essere divorate da Nerin Nerone. Sollevo il linchetto con il forchettone e lo lanciò in mezzo al lago, catturando l’attenzione del capo degli Oceanini, che molla i prigionieri e si dirige verso la nuova preda sanguinolenta, abbrancandola con i tentacoli e poi fagocitandola.
Certe alleanze sono come i tordelli della Rina, direbbe mia madre. Fanno comodo e durano poco.
«Burlaman!» mi chiama la folla. Devo far loro uno strano effetto, in un muffoso costume anni Cinquanta, armato di uno spiedo e di un sacchetto di coriandoli. Forse lo stesso effetto che fa a me nel ritrovarmi circondato dalla gente, riscaldato da un tepore dimenticato. «Attenti!» urla qualcuno.
Mi volto e vedo l’enorme sagoma limacciosa di Nerin Nerone sollevarsi dal lago di Massaciuccoli, fino a oscurare il sole che tramonta alle sue spalle.
«Non temete! Vi proteggerò!» dichiaro, con una baldanza che mi viene dal cuore, ma che non riesce a fugare i miei dubbi. Come?
Nerone allunga i tentacoli su di me; cerco di tenerli a distanza agitando il forchettone, ma mi viene strappato via, al pari del fucile. Mi restano i coriandoli esplosivi, con cui lo faccio ritrarre di qualche metro, ma non bastano a spaventare il leader di un popolo che vuole la nostra città. Glielo lascerò fare?
Ci sto ancora pensando quando mi agguanta e mi trascina nelle torbide acque del lago. Cerco di resistere, ma in quel groviglio di alghe e melma anche restare a galla è difficile, soprattutto quando pesi cento chili. Riemergo, sputo e mi dimeno, finché non noto, con la coda dell’occhio, i tentacoli allentare la presa e stendersi verso la folla sulla riva. Qualcuno sta mulinando il mio forchettone, altri stanno lanciando pietre, urlando a gran voce il mio nome.
Vorrei dire loro di fuggire, ma Nerone mi spinge di nuovo sott’acqua e per un momento mi sembra di bere l’intero lago. Penso a quegli sconosciuti che rischiano la vita per me, a mia madre che credeva in me, e mi agito, liberandomi dal groviglio di alghe. Torno a galla vicino a riva, lo stomaco pieno d’acqua, la mente adesso lucida. Ricordo quando sconfissi la banda della Panda pazza, subito dopo una bella mangiata dalla Rina.
«Burp!» Ecco, andò proprio così. Libero il mio colpo segreto, che sradica Nerin Nerone dal lago, dilaniandolo in un’esplosione di alghe e fanghiglia. Mi accascio stanco ma felice. Il rutto tonante non delude mai.
I superstiti si riuniscono attorno a me, ringraziandomi per averli salvati. Ridiamo, festeggiamo, poi penso ai militari e agli altri abitanti di Viareggio. La prima vittoria è nostra, ma abbiamo ancora una guerra da combattere. Li guardo uno a uno e ricordo perché amavo essere Burlaman.
«Andiamo a riprenderci la nostra città».
Loro sorridono. Sono con me.