Il campanello, lo odio, devo cambiarlo, ogni volta è un colpo al cuore, mi spavento. Quel rumore, sì rumore, non posso considerarlo un suono, è più simile all’urlo di uccelli terrorizzati che scappano all’apertura della stagione della caccia. E’ solo il campanello, ma non è una cosa che si possa sopportare, soprattutto alle 8 di mattina mentre ci si gode il caffè prima che il sole sorga. Probabilmente per le nove, sempre che lo faccia. Ah sì, il campanello.
Chi suona a quest’ora? Non aspetto visite. Sto ancora preparando la mia colazione e i cetrioli non sono ancora pronti per essere posizionati sul panino al burro. Mi asciugo le zampe, metto l’occorrente in frigorifero e apro la porta, la seconda porta, la terza porta. Sembra che le persone vogliano chiudersi in casa il più possibile. La prima porta è imbottita, in una finta pelle anni ’50 che ricorda un cuscino con troppi inverni al suo interno. La seconda porta è di sicurezza, blindata, doppia mandata con spioncino; nessuno ha mai scoperto a cosa serva, visto che non entrerà nessuno fino a che non si apre la terza porta. Non ricordo perché ci siano 3 porte, ma è così. Apro.
Davanti a me, senza dire una parola, rimane in piedi una signora, forse signorina, le arrivo a mala pena alla vita, è molto alta. Una gonna in lana marrone le arriva fino a metà polpaccio da dove escono dei collant pesanti, quelli intelligenti parlano di denari, non saprei giudicare quanti, so solamente che impediscono la visione di ciò che rimane nascosto al loro interno. Siamo a gennaio, fuori è buio, freddo, umido, sì perché quest’anno sembra che neve e pioggia non si mettano d’accordo e si alternano quotidianamente senza capire chi avrà il sopravvento. La signori… non so, la ragazza davanti a me porta un paltò sempre della stessa tonalità della gonna, marrone, probabilmente feltro, leggermente più chiaro. Una sciarpa bianca le avvolge delicatamente il collo da dove esce un viso stanco, probabilmente non ha dormito per tutta la notte o chissà per quante notti. Noto che porta uno di quegli orologi nuovi, li chiamano smart watch. Oltre ad indicare l’ora non perdono occasione per disturbarti con qualsiasi altro tipo di informazione: i battiti cardiaci, i passi fatti, messaggi più o meno graditi, il tempo di oggi, alba, tramonto… cose che non comprendo, ma sono molto di moda. Lei mi fissa dall’alto, non parla, con un impercettibile cenno del capo mi chiede di entrare, mi scosto e ponendomi sul lato del corridoio, le indico la strada.
Lascia le scarpe all’uscio, purtroppo non ho pantofole da darle, va bene così. Andiamo in cucina. Recentemente è diventata la mia casa, il mio ufficio, il mio pensatoio, è già tanto che non ci dormo su questo tavolo. Non che non sia mai successo, ma almeno poi la mattina mi sveglio sempre nel letto o al massimo sul divano.
Non abbiamo ancora aperto parola, lei è entrata, io l’ho fatta accomodare e le preparo un altro caffè. A Mosca è complicato trovare una buona miscela per la moka, ma si fa quel che si può. Rompo il ghiaccio.
– “Buongiorno signorina, cosa la porta da me questa mattina? Non che io non gradisca le visite, ma normalmente le persone vengono quando le invito e non si presentano alla mia porta di sorpresa, specialmente se non le conosco e soprattutto mentre faccio colazione”.
– “Buongiorno signor Beghemot, mi chiamo Chastya e la ringrazio per la signorina, sì sono ancora single e sono qui per una consulenza, è ormai due mesi che ne soffro. Non è il momento più felice della mia vita e, oltre a tutto il resto, ho perso qualcuno a cui tengo molto, è sparito da ormai due mesi e sono molto preoccupata”.
– “Lei è sicura che non se ne sia andato per un motivo valido? Probabilmente se non si fa più vedere è perché vuole stare lontano da lei”.
Ok, mi accorgo di ciò che ho detto, sono incorreggibile, la mia lingua è sempre più veloce del mio cervello e spesso il parlare diretto ed onesto non fa piacere, anzi, non fa mai piacere. Mi scuso per la frase decisamente inopportuna e la invito a continuare.
– “Non si preoccupi, sono venuta da lei e conosco il suo terribile carattere, lei non è un tipo accomodante. Apprezzo però che non lascia mai dubbi al suo interlocutore e si capisce esattamente dove vuole arrivare. Le devo affidare un lavoro, lei mi deve aiutare a trovarlo. Ho qui una foto di quando eravamo insieme. Siamo a luglio, al parco Gorky, nell’area dove i bar lasciano il posto agli alberi: c’è una piccola radura e, come può vedere nella foto, stiamo godendoci l’estate sdraiati sull’erba e trascorriamo una domenica pomeriggio lenta, tranquilla, tiepida. Qui siamo sdraiati insieme sulle chaise longue doppie che il governo della città posiziona nei parchi. Mi deve aiutare”.
Non so cosa rispondere, ma per qualche motivo mi sembra di riconoscerlo nella fotografia, l’avrò incrociato per le strade di Mosca, ma ora non ricordo, devo ragionarci meglio. Il caffè è pronto, lo beviamo entrambi amaro, anche perché non ho lo zucchero. Osservo la foto, guardo lei e poi torno con lo sguardo su quel prato. Non mi viene in mente nulla. Lei nota la mia indecisione e rimane in silenzio, aspetta paziente una mia risposta. Finisco il caffè, ho anche delle barrette di cioccolata, viene dalla Bielorussia, è di una qualità sopraffina. Le spiego che i miei amici mi portano sempre della cioccolata dai loro viaggi e la cosa non mi dispiace affatto. Ne prende un pezzo, poi un secondo ed un terzo. Il suono è netto, duro, non si tratta di quelle poltiglie mischiate con il latte, qui gli aromi del cacao si sentono e grattano la gola fino all’esofago. Sembra che anche lei gradisca, ne sono contento, ma mica posso sorriderle, tradirei la mia fama e la mia professionalità. Il mio sguardo è un misto di approvazione e superiorità: certamente è buono, cosa pensava?!.
La mattinata passa a discutere i dettagli: abitudini, luoghi, orari; tutto è utile e interessante quando si deve effettuare una ricerca di questo tipo. Come previsto la luce del giorno arriva, ma il grigiore rimane. Siamo a gennaio, abbiamo due opzioni: avere un cielo coperto e grigio oppure un cielo grigio e piovoso; alcune volte nevica ma poi torna il grigiore. Va così quest’anno.
Il giorno dopo inizio a mettermi in cerca del disperso. Esco di casa attraverso le tre porte magiche e scendo le scale, ah certo ci sono altre due porte per uscire nel cortile. Spesso mi chiedo se le fabbriche che costruivano porte avessero un’eccedenza di produzione, se così fosse mi darei una spiegazione plausibile. Sono nel cortile e scopro che, finita la pioggia, la temperatura è scesa sotto lo zero. Immaginate la situazione: una bellissima strada bagnata che viene portata repentinamente all’interno di un freezer. Peccato non avere i pattini con me, ma comunque… camminando lungo i muri dovrei riuscire a rimanere in piedi, dovrei, non riesco. Pian piano arrivo alla metropolitana e, sapete già com’è la storia vero? Non mi piace salire sul treno, io ho i miei percorsi.
Arrivo alla stazione metro Oktyabrskaya, esco per strada e vengo inondato dal profumo di caffè e smog, un bel mix. Non sono io però che posso scegliere e controllare cosa percepire, soprattutto in una megalopoli come Mosca. Mi incammino verso il parco Gorky, la località della foto. Passo oltre i grandi viali e i laghetti che dovrebbero essere ghiacciati ma sono solamente un misto di acqua un po’ più densa. Come ogni anno hanno costruito un grande anello per pattinare che copre tutta la superficie del parco, molte persone frequentano questo posto, soprattutto nelle ore serali quando luci e musica allietano le orecchie già assuefatte al rumore costante. Sono certo che non servirà a nulla essere venuto qui, dopo così tanti mesi, ma devo pur partire da qualcosa. Giungo al prato, mi fermo e mi appoggio a un’albero: osservo, penso, scrivo.
Dopo quasi mezz’ora decido di tornare all’entrata, è inutile. Imbocco il sottopasso ed esco dall’altra parte della strada, una di quelle grandi arterie di Mosca di 8 corsie che ora, a causa anche delle gomme chiodate di cui sono equipaggiati i veicoli, sono il più grande generatore di rumore della città. Spesso possiamo godere di una di quelle fantastiche vetture super lusso sulle quali, a quanto pare, qualcuno dimenticò di montare la marmitta visto il rumore assordante che producono. Mi sono sempre chiesto perché una persona, al massimo della sua ricchezza finanziaria, debba spendere così tanti soldi per avere un rombo che ti stupra il cervello a ogni movimento. Non ho mai avuto risposte. Passo sotto questa arteria di asfalto ed entro in un piccolo prefabbricato dove c’è una scritta rassicurante: caffè. Apro le pesanti porte isolanti e una volta chiuse alle mie spalle non si sente più nulla, sono vere e proprie camere insonorizzate questi cosi. Come al solito, non mi vedono. A mala pena arrivo al bancone e i commessi non percepiscono minimamente la mia presenza. Batto i miei artigli sulla cassa e quando vedo che lo sguardo del barista si muove dal suo cellulare ordino un caffè americano. Non sono molto entusiasta di bere il caffè fuori casa, ma meglio un americano che almeno diluisce il sapore indecentemente abbrustolito di espressi che hanno subito una tostatura a temperature vulcaniche per chissà quanto tempo. Colgo l’occasione per far vedere la foto al barista, ma, come supponevo, non ne sa nulla, non ha mai visto niente e non sa chi sia. Anche se lo sapesse mi avrebbe risposto allo stesso modo pur di non instaurare un discorso con me e tornare il prima possibile al suo schermo retroilluminato. Mi siedo guardando fuori dalla vetrata, noto le persone muoversi, spostarsi, correre; le auto sfrecciano imboccando a volte il tunnel, a volte la corsia per entrare nel quartiere. Devo pensare, devo trovarlo, devo aiutare Chastya, ci tengo.
Torno per strada e mi dirigo verso il Cremlino attraverso il parco Museon. Mi piace camminare in mezzo a tutte queste statue diventate museo. La realtà è che non hanno trovato posto altrove, ma ora hanno il loro senso: abbandonate da scultori e committenti riposano in pace tutte insieme. Fermo molte persone, cerco di chiedere informazioni. Le reazioni sono molto differenti, ma generalmente tutti sono sospettosi e passano oltre. C’è la signora che non sa cosa sia, il ragazzino curioso che guarda la foto, ride, ma non risponde; l’anziano che si nasconde all’interno del suo paltò a collo alto e la nonnina che mi attacca bottone con discorsi del tipo non è più come una volta, hanno cambiato tutto, persino la neve sono riusciti ad eliminare. Sembra che questo non sia il posto giusto. Mi avvio al ponte pedonale che porta alla Cattedrale di Cristo Salvatore, e mi incammino verso la stazione metro di Kropotkinskaya, qui non trovo soluzioni, meglio cambiare punto di vista.
Passo le porte e lotto con il vento proveniente dalle viscere della città, scendo le scale mobili e arrivo alla piattaforma dei treni, quarta colonna a destra, entro. Ho la sensazione di essere seguito. Penso che il fatto di essere stato così insistente con le persone per strada non sia stato gradito alla diligente polizia moscovita, qui posso stare tranquillo, nessuno mi vede e nessuno può accedere senza il mio permesso. Arrivo nella mia sala da riposo dove la mappa sul soffitto continua a mostrare la vita nella città superiore. Non so che ore siano, ma decido che è ora di tornare a casa, qui non ne cavo un ragno dal buco. Esco dalla metropolitana, mi incammino verso il mio appartamento, improvvisamente mi trovo a terra, prono con la faccia sull’asfalto. Bloccato, con la bocca immersa in quella poltiglia di fango e chimici per sciogliere la neve che copre tutta la città. Mi sento tanto come i nativi americani quando appoggiavano l’orecchio sui binari del treno per sentirne i movimenti. Con il mio orecchio schiacciato sull’asfalto posso sentire chiaramente tutti i ticchettii delle gomme chiodate dei veicoli che corrono lungo la strada. La polizia mi ha trovato, bloccato, atterrato. Non so perchè, io non parlo con loro e loro non parlano con me. Non ha senso, non serve a nulla, non sono mai riuscito a discuterci, devo solo aspettare una loro decisione. La foto mi esce dalla tasca e si immerge nella pozzanghera. La carta si impregna del liquido che faccio fatica a chiamare acqua, l’immagine del sole scompare, anche dalla foto, ormai non c’è più traccia di lui a Mosca. Pochi minuti e la polizia mi lascia, non ha nessun motivo per trattenermi, non mi dice nulla, semplicemente se ne va.
Io rimango ancora nella stessa posizione, non capisco, devo decidere. Ho perso la foto e Chastya non ritroverà il suo sole. Devo incontrarla questa sera, ho bisogno di una doccia e devo mangiare.
Poche ore dopo io e Chastya siamo seduti al tavolo nella mia cucina. Le spiego che non so dove sia il sole, è sparito, nessuno lo vede da novembre. Tutti sanno che l’energia che trasmette è fondamentale per la vita, ma sembra che ne abbiano timore e non siano interessati. Non capisco, ci sono negozi con finti soli e farmacie che vendono vitamine per supplire alla mancanza della naturale produzione del corpo umano. Noto lo smart watch ancora una volta, indica che il tramonto è stato alle 15:53, quindi da qualche parte è passato, chissà dove. Accendo le luci decorative di Natale, rimarranno con me fino a marzo. Apparecchio e offro la cena a Chastya, abbiamo bisogno di buonumore, apro una bottiglia di vino e una lattina con dell’ikrà, il caviale rosso. D’un tratto un raggio luminoso entra dalla finestra, ci guardiamo, ci capiamo, corriamo a vedere, ma sono solamente i fari del camion della spazzatura, nulla più. La serata prosegue con chiacchiere e aneddoti di viaggi, concludiamo con dell’ottimo samogon proveniente dalle regioni dell’est. Fuori piove.
In fede,
il sempre vostro Behemoth.