Giulia Ciarapica, la grande book blogger si racconta tra lavoro e Amore per le Storie

Colta, simpatica, irriverente, coraggiosa.

Marchigiana, come il suo illustre conterraneo Giacomo Leopardi, col quale però non pare avere in comune il pessimismo cosmico.

Questo, e molto altro, è Giulia Ciarapica, di cui L’Ordinario ha voluto raccontare storia, prospettive e sogni.

Una bella immagine di Giulia Ciarapica, Book blogger e scrittrice _Ph. Federico Brentaro

Quando ci siamo conosciuti la prima volta, qualche anno fa, recensire libri era per lei poco più che una passione.

Le fu sottoposto un mio volume, Gladio, da poco uscito, per il periodico online «The Fielder», e la sua recensione fu così brillante da farmi pensare, mi si perdoni il paradosso, che lo avesse letto con più cura di chi lo aveva scritto.

Oggi, a distanza di tempo, quella sua passione è diventata un mestiere; è una delle più influenti book blogger d’Italia; e ha appena dato alle stampe il suo primo romanzo, Una volta è abbastanza, edito da Rizzoli, che – per dirla con Edoardo Nesi – è un po’ la storia della sua gente.

Del suo paese, della sua regione, di uno sviluppo economico basato sulle calzature.

Un romanzo che, possiamo anticiparlo ai lettori de L’Ordinario, verrà presentato nell’ambito di Lucca Città di Carta.

Ecco il botta e risposta con Giulia. Parlando di libri e non solo.

 

Giulia, come nasce questa passione per la lettura e per la scrittura? E quand’è che hai capito che questa passione poteva diventare anche un lavoro?

“In realtà, quando ho cominciato, nel 2014, è stato tutto davvero casuale. In quell’anno ho preso la laurea magistrale in filologia moderna, e poi ho cominciato a pensare a che cosa avrei fatto da grande; e da lì è nata l’idea di lavorare con le parole e con le storie, che era la cosa principale che volevo fare. Non volevo insegnare e così, un po’ di mia spontanea volontà, un po’ seguendo il suggerimento di mia madre, lettrice accanita, ho aperto un blog. Ho cominciato a fare l’unica cosa che sapessi fare, cioè leggere e scrivere, e le prime piccole recensioni, assolutamente amatoriali, le ho scritte su Facebook. Chiaramente avevano un seguito molto relativo, perché non è il social adatto per fare questo tipo di cose e perché c’era una sensibilità ancora diversa rispetto a questo mondo dello scrivere dei libri online, e quindi dopo un paio di mesi ho deciso – eravamo nel luglio del 2014 – di aprire il mio primo blog, che all’epoca si chiamava Se questo è un libro. Da lì ho iniziato un percorso che mi ha portato in pochissimo tempo a collaborare con il magazine Sololibri.net e poi anche con «The Fielder». Mi sono sempre occupata di recensioni di libri, fondamentalmente, e, più in generale, di articoli di cultura. Da lì a un paio d’anni distanza, cioè nel 2016, ho iniziato la prima collaborazione con «Il Messaggero». Sono stata contattata perché avevano notato il mio blog, che nel frattempo si era rinnovato, aveva cambiato anche un po’ veste, e aveva soprattutto una circolazione migliore rispetto agli inizi. L’anno successivo, il 2017, ho iniziato il mio rapporto professionale anche con «Il Foglio»; attualmente collaboro con entrambi. Ovviamente mi occupo sempre di libri, e scrivo principalmente recensioni. Sto facendo anche tutta una serie di lavori sul recupero dei classici: una sorta di ritorno alla mia passione originale. Nel frattempo poi è uscito anche un primo libro, Book blogger: scrivere di libri in rete: come, dove, perché, del 2018, edito da Franco Cesati Editore, che ruota proprio attorno alla questione di chi scrive di libri in rete. Un libro su questo nuovo mestiere, anche se poi non è un mestiere vero e proprio ma un avviamento a una professione. Una specie di guida, un saggio che dà indicazioni generali su come aprire un blog e come scrivere seriamente di libri in rete. Perché il problema è sempre quello, il fatto che i lettori, in qualche modo, hanno difficoltà a fidarsi di queste figure digitali, i blogger, che non sono dei giornalisti con un tesserino tradizionale, e che quindi non hanno una conformazione professionale e tecnica come la loro. Tuttavia, per la maggior parte, sono persone serie che leggono da sempre ed esprimono liberamente una loro opinione. E quindi influenzano in qualche modo anche l’opinione dei lettori che poi andranno in libreria. Dopo qualche tempo, è arrivato il romanzo che è uscito ad aprile scorso con Rizzoli, l’esordio nella narrativa”.

Ne parleremo. Nel tuo attuale blog, https://giuliaciarapica.com/, c’è una frase che mi colpisce: Voglio un uomo che mi guardi con la stessa passione con cui io guardo un libro. Ne deduco che tu guardi un libro con grande passione!

“Ovviamente sì, ed è anche altrettanto vero che io sono single. Era inutile dare al blog nomi astratti o che richiamassero cose già sentite, e quindi l’ho chiamato col mio nome e cognome, perché tanto la gente su Google cercava quello. Al contempo, però, non volevo un blog che si prendesse troppo sul serio, perché io non mi prendo mai troppo sul serio, ma cercavo qualcosa che richiamasse subito la passione per i libri. E la frase che tu hai citato è molto ironica, e mi piaceva utilizzarla innanzitutto per sdrammatizzare e per creare una sinergia fra i libri in sé, e quindi il tema del blog, e l’ironia e l’autoironia. Due cose che mi contraddistinguono e senza le quali parlare di libri diventerebbe qualcosa di profondamente noioso e privo di attrattiva”.

Sono perfettamente d’accordo con te e aggiungo che comunque le grandi passioni della vita si sposano bene fra loro. Le buone letture, il buon cibo e il buon vino e anche l’amore, ovviamente…

“Assolutamente sì, ma infatti questa era proprio la filosofia del nostro Festival, che abbiamo creato a Sant’Elpidio, il comune in cui vivo, che si è svolto recentemente e che si chiama Libri a 180 gradi. Nel titolo c’è un voluto doppio senso. Da un lato 180° è l’angolo di apertura del libro quando è aperto, quando lo stai leggendo, e dall’altro lato 180° sono la temperatura ideale per cuocere i dolci in forno. Il significato è che i libri sono comunque cibo, anche se per la mente; sono passione e amore, sia per il cibo del corpo che per quello dell’anima”.

Com’è nato il Festival? E com’è andato?

“E’ andato bene. Solo il sabato pomeriggio abbiamo avuto un calo di affluenza perché per molti è un giorno di lavoro, mentre la domenica e il lunedì sono stati pieni di gente. In particolare, abbiamo dedicato la giornata di lunedì ai bambini, che hanno assai apprezzato i laboratori creati per loro. Devo dire che è stata una bella sfida per un comune così piccolo come quello di Sant’Elpidio a Mare, in provincia di Fermo, all’interno del quale si trova la frazione in cui vivo, Casette D’Ete. Il tentativo – credo riuscito – era anche quello di raccontare un territorio, le Marche, e specialmente le Basse Marche, di cui si parla pochissimo, e che il grande pubblico conosce effettivamente poco. Un territorio noto a livello internazionale per le calzature, perché noi siamo la zona degli “scarpari”, ma che io e gli altri organizzatori del Festival volevamo provare a far conoscere anche per qualcosa di diverso, convocando persone interessate all’editoria. Che ci sono, tanto è vero che in tanti ci stanno chiedendo se ci sarà una seconda edizione”.

Con una battuta potremmo dire che Libri a 180 gradi, visto che si parla anche di temperatura, può essere la risposta speculare all’idea del Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, cioè l’idea di bruciare i libri e impedire agli esseri umani di pensare, che ogni tanto riemerge.

“È vero, hai perfettamente ragione, noi non ci abbiamo pensato però qualcuno ce l’ha fatto notare, quindi si vede che questa cosa è circolata nella mente di chi è venuto al Festival”.

E veniamo al romanzo, a Una volta è abbastanza. Si parla di calzaturifici, della tua terra, di una saga familiare.

“Sì, è una saga familiare che ruota attorno proprio alla tematica del lavoro, e nello specifico al lavoro artigianale dei calzolai; è una trilogia, quindi quello che è uscito è il primo volume di tre. Si parla di famiglia perché al centro della storia ci sono due famiglie di Casette D’Ete, e l’ambientazione è assolutamente reale. Volevo valorizzare una zona d’Italia poco conosciuta e raccontare l’epica dei calzolai. Questo secondo me, al di là della storia e di come è strutturata, è il punto di forza di un romanzo che racconta qualcosa di cui nessuno parla mai, cioè di coloro che hanno contribuito a fare la storia del Made in Italy. Ci tenevo a far vedere la trasformazione del piccolo laboratorio in cui il calzolaio produceva le sue scarpe, fino ad arrivare alla piccola industria, alla media e, poi pensiamo a Della Valle, a quella grande. Con l’andare degli anni, le scarpe sono diventate una sorta di feticcio, perché non solo erano fonte di guadagno, ma anche perché erano diventate l’oggetto attraverso il quale costruire un futuro vero e proprio.

La copertina del libro di Giulia Ciarapica, appena uscito per Rizzoli. E’ il primo volume di una trilogia, un’intensa saga familliare dove protagonista è anche la terra d’origine della blogger, le Marche, terra di calzolai e di molto altro.

Da queste parole tu, che sei una delle più giovani romanziere italiane, sembri palesare un’identità di vedute con la decana delle nostre scrittrici, Francesca Duranti, che proprio in una recente intervista a L’Ordinario ha affermato che “Scriviamo bene se leggiamo bene, ma soprattutto se scriviamo di ciò che conosciamo meglio”.

“Intanto sono emozionata di questo accostamento e di questa coincidenza temporale delle due interviste, perché io adoro Francesca Duranti e addirittura, all’università, ho frequentato un corso monografico sul suo romanzo autobiografico La bambina”.

“Detto questo, sono profondamente convinta di ciò che dice la Duranti. Io, nel romanzo, parto da una base che conosco benissimo perché fondamentalmente parlo della mia famiglia da parte di madre; quindi la storia è, per la maggior parte, vera e i personaggi sono tutti realmente esistiti, alcuni addirittura conservando il loro nome reale. Sì, io avevo intenzione di iniziare il mio percorso narrativo parlando di qualcosa che conoscessi molto bene perché – come Elena, detta Lenu, ne L’amica geniale di Elena Ferrante, che sforna il suo libro più bello quando torna nell’ambiente in cui era vissuta (in quel caso si trattava del rione napoletano) – raccontare ciò che si conosce, un ambiente che si è respirato fin da piccoli, fornisce le energie anche emotive per mettere su carta e per poter restituire al grande pubblico un romanzo vero, autentico. Ecco, io sono convinta di questa cosa, sono convinta che il fatto di aver raccolto tante testimonianze e tanti ricordi, e di averlo fatto tra l’altro molto prima che mi balenasse in testa l’idea del romanzo, mi abbia aiutato a costruire una storia di questo tipo che, ripeto, non è solo di una famiglia, bensì di una comunità. Poi è anche vero che si possono raccontare, attraverso le parole e quindi la scrittura, storie molto lontane da noi, ma, sotto sotto, riconosciamo sempre principalmente ciò che si è anche solo in parte vissuto, ciò che si è visto da vicino, altrimenti rischieremmo di fare qualcosa di poco autentico, un po’ posticcio”.

Però Emilio Salgari ci ha parlato della Malaysia senza essersi mai mosso dalla sua stanza…

“Certo, ma lui aveva un occhio sensibile a tutto questo, era pronto a recepire, ad assorbire le energie che arrivavano, e allora è più semplice restituire anche cose lontane da noi. Oggi, con i media e i social che ti consentono di conoscere in tempo reale fatti che accadono in tutto il mondo, da un lato si è forse affievolita la capacità di immaginare, ma dall’altra si sono ampliati a dismisura i materiali su cui poter imbastire storie di ogni genere”.

Ciò di cui scrivi più volentieri suppongo che sia anche il genere che leggi più volentieri, al di là del fatto che poi devi leggere un po’ di tutto per lavoro…

“Mah, guarda, io sono molto legata a tutti i classici. Prediligo la scrittura intimista rispetto ai romanzi gialli, anche se pure di quelli i classici li ho letti e in alcuni casi, penso a quelli con ambientazione gotica di Wilkie Collins, li adoro. Uno dei miei libri preferiti, o forse il libro preferito, è Stoner di John Williams, un libro con una scrittura molto intima in cui c’è poca azione ma tanta riflessione. Invece il libro del cuore è L’isola di Arturo di Elsa Morante. Anche in quel caso poca trama, se vuoi, azione quasi nulla ma tanto sentimento e tante riflessioni sul genere umano. Prediligo molto la letteratura italiana dell’Ottocento e del Novecento, sono molto attratta dalla letteratura russa dell’Ottocento, e mi piace molto anche la letteratura mitteleuropea, per intendersi Magda Szabo o Sandor Marai. Il cuore letterario al di fuori del lavoro va verso queste direzioni”.

Senti, cosa ne pensi della vecchia battuta secondo la quale la metà degli italiani scrive libri e l’altra metà non li legge?

“Purtroppo è verissimo. Abbiamo il brutto vizio di leggere poco in generale, ma anche chi scrive i libri a volte si riduce a leggere quasi solo il proprio, che è un pochino limitante. È aberrante, se ci pensi, perché l’atto della lettura dovrebbe essere spontaneo, e se ti piace scrivere, diamine, devi avere una passione alla base su cui lavorare, cioè i libri; come si può scrivere se non si legge? E come si può intraprendere un percorso professionale di questo tipo, se non mossi da passione? Se mancano i lettori e sovrabbondano gli scrittori, è forse perché tutti abbiamo qualcosa da dire, però non ci interessa quasi più capire in che modo gli altri possono raccontare una storia. Abbiamo solo l’urgenza di metterci in primo piano, dimenticando che tutto quello che comunichiamo può essere storia personale, un memoir e magari diventare un capolavoro, ma bisogna avere gli strumenti per descrivere, per narrare, per raccontare. Altrimenti non è letteratura, è un diario personale e per quello c’è Facebook, che basta e avanza”.

 Poi viene meno anche un principio a cui sono molto legato, che è quello della circolarità della cultura, delle idee, perché se tu non vai ad assistere alle presentazioni degli altri e non leggi i libri degli altri diventi anche asfittico intellettualmente.

“Poi magari ci si riduce, come fanno tanti, ad affidarsi e a leggere le notizie che circolano sui vari social, che magari sono di Lercio, e a crederci. Leggere e confrontarsi con la scrittura di un altro e quindi con un’altra mente, è fondamentale anche per mantenere l’elasticità del pensiero, altrimenti è come avere l’intelligenza senza utilizzarla”.

La letteratura deve servire a indagare la realtà o deve essere evasione?

“Secondo me l’autore dovrebbe scrivere prima di tutto ciò che conosce e sente meglio, perché la letteratura – e qui mi appello un po’ a Vargas Llosa che tanto ha disquisito sulla questione della letteratura come menzogna o come verità – secondo me è, o dovrebbe essere, qualcosa che sta a metà tra verità e bugia. Raccontiamo il vero ma tramite lo strumento dell’invenzione, quindi a meno che non si dichiari che è un’autobiografia o un romanzo storico o un memoir, c’è sempre quella parte di inventiva che, se vogliamo, trasforma la letteratura anche in evasione”.

Voi blogger vi ritenete utili nella misura in cui date il coraggio ai nuovi narratori, ai nuovi romanzieri, magari un pochino timidi, che pensano di non avere un prodotto buono tra le mani ad esporsi? Vi sentite utili in questo senso?

“Sì, è così. Me lo dicono in tanti. Grazie al blog, ai social, a Instagram, in tanti, anche i più timidi, si stanno mettendo in gioco perché comunque è un modo per raccontare una propria passione. Hai voglia di raccontare il tuo punto di vista e quindi, in qualche modo, hai voglia di raccontarti attraverso uno spazio privato, e gratuito, come il blog, in cui puoi esprimere la tua opinione. Ma puoi metterti in gioco, anche visivamente parlando, attraverso le storie o le dirette di Instagram e farti conoscere per chi sei e non solo per quello che fai. Perciò, ribadisco, si tratta di forme di aiuto molto valide e credo che, se coltivato nel modo giusto, questo hobby possa davvero un giorno diventare una professione”.

Tempo fa io facevo un corso di scrittura creativa all’università ed esordivo sempre con questa frase: “L’ispirazione non esiste”. Sei d’accordo?

“Sono convinta che nella scrittura ci sia di sicuro la componente dell’ispirazione, ma il lavoro di scrittore non è basato solo sull’ispirazione, è anche metodicità, è quotidianità, è stare tutti i giorni lì, a battere sulla tastiera del computer cercando di tirar fuori qualcosa di buono da un lavoro che hai organizzato nei mesi precedenti e a cui hai dato voce attraverso degli appunti, una scaletta, delle ricostruzioni storiche, delle interviste. Io sono una metodica, una che tutti i giorni scrive all’incirca tra le 8.000 e le 12.000 battute, perché non riesco, nel momento in cui ho pianificato tutto, a stare un giorno senza scrivere. Poi magari ci torno su; c’è di sicuro il giorno in cui scrivo con più facilità e il giorno in cui faccio fatica, questo è ovvio, ma vale un po’ per tutti i mestieri. Credendo nel lavoro duro e puro. All’ispirazione ci credo ma solo per metà”.

 

In realtà crede allo studio “matto e disperatissimo”, ma le si prospettano tanti “sabati del villaggio”.

All’insegna delle passioni.

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