Inseguo l’orizzonte giochicchiando con la manopola consumata di una radio che sfrigola su una stazione che passa classici Rock. Tu sei al mio fianco, persa nell’incanto di una natura selvatica e rigogliosa in cui risuonano alcuni canti lontani che profumano giù d’autunno. I Colli Euganei si materializzano davanti ai miei occhi per la prima volta dopo alcuni tornanti grintosi che spezzano d’improvviso la placida quiete di un paesaggio agreste immerso nella luce perlacea di una calda giornata di fine agosto.
Uno sguardo mi è sufficiente a comprendere d’esser giunto in un luogo minuto e fragile come il suono etereo con cui lo scampanio della chiesa accoglie ancora oggi, come nei tempi che furono, l’ingresso dei viandanti che giungono fino a qui per lasciarsi incantare dalle meraviglie semplici di un luogo famoso sì, ma anche fuori dalle mappe e dai circuiti, a volte troppo asfissianti del turismo di massa.
Qualcuno chiacchiera nel bar della piazza, alcune sparute comparse si attardano a scrutare la superficie rugosa di qualche abitazione antica, impreziosita da melograni succosi che spiovono sulle strade un po’ ovunque, mentre scavo con gli occhi nel cuore pietroso del borgo che accoglie i miei passi ancora incerti sulla direzione da prendere.
Io mi volto e tu sorridi, indicandomi col braccio una strada che si inerpica dietro la chiesa.
Ci incamminiamo, sperando che il vento che scuote la bandiera con il vessillo di San Marco posta sul tetto di un edificio lontano scenda più in basso per portar refrigerio anche a noi.
Quel desiderio si materializza per qualche istante mentre osserviamo il campanile dai margini ombrosi della scalinata che si inerpica sino al monumento dei caduti che sorge al centro di un anfiteatro erboso protetto a vista da una vegetazione fitta utile a riparare dal sole e a tagliar fuori i suoni di troppo che quassù non arrivano.
Alcune cicale divenute roche dal troppo cantare accompagnano i nostri passi fino all’ora di pranzo e fanno da sottofondo a un pasto frugale e un bicchiere di vino intriso della felicità con cui condividiamo la bellezza insita nel poter vivere assieme un giorno come questo.
Continuiamo la visita dopo pranzo, prendendoci il nostro tempo per visitare la casa in cui Petrarca ha trascorso gli ultimi anni della propria vita.
La finestra del primo piano si spalanca sui Colli Euganei e la vista, mentre lascio che gli occhi siano liberi di vagare come meglio credono su quel paesaggio vasto e verdeggiante che profuma ancora di tutte le cose belle dell’estate, insegue la forma strana di alcune nuvole che fanno affiorare un ricordo fugace.
In lontananza, una colomba si prodiga in un grazioso ed elegante avvitamento che si arresta d’improvviso sul ramo sottile di un melograno mentre qualcuno riesce a immortalare quel momento grazie al clic di uno smartphone qualunque.
Le pietre sul selciato risuonano come melodie arcane e preziose che posso far mie, immergendomi completamente nella meraviglia dai tempi meno complessi e rispettosa di un vivere ricco di significato quale sei, Arquà.
Le case digradano lievemente mentre percorro la viuzza che collega la parte alta e quella bassa del borgo, accompagnandomi di fronte al selciato della chiesa che ospita il monumento funebre del poeta.
Mi preparo a salutarti proprio da qui, riparandomi la fronte con una mano per tagliar fuori il sole caldo del primo pomeriggio mentre leggo alcune strofe lasciate da Lord Byron a imperitura memoria dell’illustre fiorentino.
Prima di andare riesco a gustarmi le ultime note del tuo inno a una semplicità che è un dono raro e straordinario in un mondo che ogni giorno diventa sempre più complesso e cerca in ogni modo di allontanarmi da momenti come questo senza però riuscirci mai del tutto, per fortuna.