Languore d’inverno:
nel mondo di un solo colore
il suono del vento
Matsuo Basho (1644-1694)
Le stagioni ci accompagnano da sempre dando un ritmo alla nostra vita, la caratterizzano in modo inequivocabile, eppure non sono uno dei soggetti più rappresentati della nostra storia.
Forse necessitano di un approccio che fino a qualche tempo fa non era così diffuso, sarebbero state infatti considerate un soggetto effimero, irrilevante, privo di solide basi morali e tantomeno religiose.
L’arte in fondo ha sempre avuto un innesco fondamentale – la committenza – e spesso, si sa, gli uomini sono vanesi, preferiscono spendere grosse cifre pur di raffigurare la propria gloria anziché dedicare maggiore attenzione al mondo che li circonda.
Esistono tuttavia numerose eccezioni, piccoli semi di sensibilità che a partire dall’antichità sono stati piantati qua e là – tra le pagine di un manoscritto, tra le righe di un pentagramma, sulle pareti di un edificio – per poi crescere e svilupparsi in quella che è diventata l’attuale sensibilità contemporanea.
Oggi andremo alla ricerca di alcune risposte che si nascondono dietro una domanda apparentemente semplice, una roba un po’ pop, alla Battisti, come quando si chiedeva che sapore avesse una giornata uggiosa – che poi se lo chiedeva a proposito di una vita mal spesa, ma fa niente – noi comunque ci poniamo la solita domanda a proposito dell’inverno: una stagione, a ben vedere, assai generosa.

Che l’inverno sappia di freddo è una cosa un po’ scontata da dire, però va detta lo stesso, altrimenti mancherebbe qualcosa, qualcosa di grande.
Qui da dove vi scrivo – in Valle d’Aosta, in cima alla Valle di Saint Barthélemy – a volte il termometro scende così in basso che la temperatura massima è inferiore alla minima.
Tuttavia se potessi la abbasserei ancora un po’; non sono insensibile al gelo, tutt’altro, ma sapere che mentre sono fuori, al lavoro, a -10°C, c’è una casetta calda che mi aspetta, fa tutta la differenza del mondo e così lavoro anche un po’ più tranquillo sebbene abbia freddo lo stesso.

L’evoluzione dell’abbigliamento e il maggiore calore domestico hanno contribuito negli ultimi secoli a renderci meno sensibili ai rigori del clima, regalandoci in cambio un nuovo tipo di sensibilità, quella estetica; così possiamo pensare al freddo – anche – in modo positivo.
Ecco perché la sua rappresentazione è una faccenda relativamente recente; tanto maggiore sarà la capacità di scaldarci, tanto più apprezzeremo le basse temperature.
I Romani, pur con la loro organizzazione, erano assai impreparati al clima invernale: pare che durante il loro periodo il mondo fosse un po’ più caldo rispetto a oggi*** e il modo tradizionale che avevano di vestirsi in effetti testimonierebbe una scarsa familiarità con i climi rigidi.
L’origine dei pantaloni, le cosiddette bracae, si ritrova in un indumento utilizzato dalle popolazioni del nord; un marchio di infamia questo per la cultura romana che preferì per lungo tempo deriderne l’accessorio – chiamandolo feminalia – e tremare dal freddo piuttosto che indossarlo e trarne giovamento.
A partire dalla conquista delle Gallie però i centurioni cambiarono rapidamente idea e passarono dallo scherno all’utilizzo, dando il via a una moda arrivata direttamente fino ai giorni nostri. Un lungo tragitto durante il quale i pantaloni sono così passati da oggetto ritenuto non virile a simbolo di machismo. Pensa tu la coerenza, appena un po’ di venticello soffia proprio lì.
Questo ci mostra che tra le pieghe degli indumenti, così come tra quelle della storia, si trova più ironia di quanto si immagini.
*** [è stato recentemente dimostrato che il periodo compreso tra il 250 a.C e il 400 d.C. sia stato accompagnato da un clima relativamente mite, tanto da essere indicato come “periodo caldo romano”. Non sorprende che dall’urbe abbiano preso il grande raccordo anulare in direzione nord proprio a partire dall’inizio di tale periodo. Esistono anche altre motivazioni, ma il clima condiziona sempre le nostre scelte e studiare la sua storia è un po’ come studiare la nostra.]

Lo scrittore Francesco Piccolo, in un articolo su La Lettura del 17 Gennaio scorso, spiegava bene perché è importante saper ridere di tutto, anche di noi stessi e delle nostre eventuali tragedie. Ridere è una capacità che presuppone una cosa serissima: la conoscenza. Si può parlare di tutto, anche di cose che non si conoscono affatto, ma per far ridere – o riderne assieme – c’è bisogno che la conoscenza di ciò di cui si parla sia approfondita e condivisa, altrimenti nessuna battuta funzionerebbe.
Rido, perché so. Sintetizzando.
Anche l’apprezzamento del freddo presuppone un’approfondita conoscenza, sono proprio le popolazioni del nord, quelle che ne dispongono in gran quantità, ad avere con questo il rapporto migliore; se ne possono proteggere – sfruttandolo anche come una risorsa – proprio perché lo conoscono bene.

Long story short – un modo simpatico che ha la lingua inglese per dire “in poche parole” – a un certo punto cadde l’impero romano, e così fecero anche le temperature.
Nuovo collegamento tra storia (nostra) e storia del clima? Sembrerebbe probabile. Si entrò infatti nella cosiddetta “piccola era glaciale tardo antica”, uno dei motivi per cui da nord questa volta scesero, tra gli altri, i Longobardi.
Le seguenti parole di Paolo Diacono, famoso storico e cronista del VII secolo, sintetizzano bene le sensazioni da lui provate in quell’Italia raffreddata e inselvatichita: «era come se il mondo fosse tornato al silenzio delle origini».
Diacono ci offre lo spunto per dare uno sguardo a una caratteristica spesso collegata all’inverno, il silenzio. Non è proprio un tratto esclusivo della stagione, tuttavia di questi tempi lo si può trovare così facilmente da sembrare quasi un suo attributo.
Sarà la neve, che assorbe i rumori.

Se è vero che l’inverno è freddo, non si può dire però che il silenzio sia silenzioso;non ha niente a che vedere con l’assenza dei rumori ma piuttosto con la capacità di ascoltare.
Tutto ciò che vive emette una vibrazione, le cose più grandi così come quelle più delicate: i fiocchi di neve, la linfa negli alberi, il sole che sorge. Il silenzio è la condizione necessaria affinché si possano sentire anche le vibrazioni più leggere, è un modo per sintonizzare il battito del nostro cuore con il respiro del mondo. Purifica la mente e alleggerisce lo sguardo. Davvero? Beh comunque male non fa.
Uno dei maggiori esperti nel campo del silenzio è stato Antonio Vivaldi, noto compositore veneziano. In realtà non ci sono molte prove a sostegno di questa tesi, se non il fatto che sarebbe impossibile trasformare le stagioni in quattro concerti solisitici per violino senza avere a disposizione una gran quantità di silenzio, durante il quale ascoltare con cura ognuna di esse.
Tra i concerti composti, quello dedicato all’inverno è il mio preferito: il pizzicato del secondo movimento (le gocce di pioggia che cadono sul terreno) e la nota trattenuta dell’ultimo (l’incedere sul ghiaccio) sono da brividi, inverno allo stato puro.

Vivaldi non è stato l’unico a tentare una sfida del genere; Purcell, Tchaikovsky, Debussy e molti altri si sono cimentati in simili imprese; tuttavia è nelle arti figurative – e nella letteratura – che contiamo il maggior numero di tributi.
Qui sotto si trova un primo esempio in cui oltre alla raffigurazione di un mese – Gennaio – si certifica in qualche modo anche l’avvenuto cambio di sensibilità nei confronti di un momento dell’anno.
Una bella differenza rispetto al clima da fine del mondo di Paolo Diacono. Adesso i personaggi affrescati paiono essere assai felici del loro tempo, tanto da impiegarlo per tirarsi palle di neve. Notiamo come i vestiti risultino adeguati alla situazione: mantelli pesanti, pantaloni, cappelli in testa e un bel paio di guanti – muffole, sembrerebbero – indossati con soddisfazione dalla signora in verde.
È l’inizio di una nuova amicizia, quella tra noi e l’inverno. E delle settimane bianche. Prendendola molto da lontano.

fine XIV sec.
Castello del Buonconsiglio
Trento
Come tutte le relazioni però anche quella con le stagioni ha i suoi alti e bassi; qui il confine tra apprezzamento e insofferenza è piuttosto leggero e soprattutto mutevole. È un po’ come fare amicizia con un animale selvatico, va bene finché va bene, ma nessuno sa per quanto.
Più o meno a partire dal 1300 – e fino al 1850 – l’Europa entrò nella così detta “piccola era glaciale”, un periodo che raggiunse il suo picco alla metà del ‘600, come ci dimostrano le richieste di aiuto provenienti dagli abitanti di Chamonix.
Il paese di là dal traforo rischiò seriamente di sparire inghiottito dall’avanzata del Mer de la Glace, il famoso ghiacciaio che oggi invece vive il problema opposto; è lui a rischiar l’estinzione.
La piccola era glaciale rese la vita molto complicata in tutta la zona alpina, tuttavia altrove ci si divertiva parecchio, nonostante – o forse proprio per – il gran freddo.

Nell’Europa del nord, tra Fiandre e Frisia, c’era un popolo che viveva su un territorio particolare: non solo era assai ridotto ma si trovava in parte anche sotto il livello del mare, una situazione per niente comoda.
Gli Olandesi avrebbero tanto desiderato nuove terre su cui camminare, ma i loro vicini, che li osservavano con germanica attenzione, facevano no con il ditino non appena guardavano in quella direzione. Fu così che per mettere i piedi su qualcosa di nuovo, non restò altro che tentar la via del mare.
Ecco perché non furono affatto dispiaciuti quando a causa del clima gelido i canali delle loro città cominciarono a ghiacciare regolarmente; era come se il mondo fosse diventato più grande, cresceva sia lo spazio a disposizione che le opportunità e i divertimenti connessi.
Nessuno meglio di Hendrick Avercamp è riuscito a dipingere il legame affettivo tra gli Olandesi e l’inverno.

Hendrick Avercamp, c. 1608
Rijksmuseum, Amsterdam

– dettaglio –
Hendrick Avercamp, c. 1608
Rijksmuseum, Amsterdam

– dettaglio –
Massimo Vitali, 2012
Brasil
«Per superare l’inverno ci vogliono delle abitudini» scriveva Nicolas Bouvier ne “La polvere del mondo”, tra i libri di viaggio uno di quelli così belli da scappare inevitabilmente fuori dal genere in cui si vuole inserirlo.
La vita non insegna a viaggiare, ma viaggiare insegna a vivere e a guardarsi con attenzione attorno, a essere nel mondo.
Bouvier sapeva farlo con così grande sensibilità da percepire cose che io non sapevo nemmeno che esistessero: «Nelle sere di novembre il vento del nord scende su Kabul a raffiche, spazza via il tanfo abituale dei bazar e lascia nelle strade un sottile odore di altitudine. È l’Hindukush che si manifesta».

Durante una passeggiata notturna, a 6626 chilometri e 68 anni di distanza da quelle parole, è sembrato anche a me di sentire un certo odore di altitudine, e mi è parso buonissimo.
Sarà per quello che ho finalmente capito il senso di una frase sempre sentita, ma mai davvero afferrata: [noi siamo] “polvere di stelle”.
Fu Joni Mitchell la prima a scriverla, nella canzone “Woodstock” (1970). La cosa piacque molto a Carl Sagan – famosissimo astronomo – che la fece sua, unendo alle suggestioni liriche le basi scientifiche: non si tratta di un’uscita a effetto, è un dato di fatto, il carbonio che si trova nel nostro corpo è lo stesso che si trova nell’universo, viene da lì. Veniamo da lì.
Io però questa frase l’ho “presa” soltanto adesso; sono state necessarie una notte di luna piena, la temperatura a -15°C e delle montagne verticali come cattedrali gotiche a sospingermi verso l’alto, per sentire davvero che altro non siamo se non piccole cose cadute dal cielo.
L’inverno in tutto questo aiuta; prolunga la notte e amplifica il silenzio, cose semplici, ma importanti.
All’uomo solo
ancora più amica
la luna
Yosa Buson
(1715-1783)
Io nel frattempo ringrazio questa stagione per le opportunità che ci offre e anche voi per avermi seguito fin qui: l’inverno non è ancora finito e c’è un modo solo per domarlo, stare alle sue regole: più ci si copre e più lo si scopre.
A presto.
F.