Tappeti Volanti (5). Da Ankara a Viareggio, volando sulle Storie.

Alcuni tappeti volanti si librano in aria senza apparente sforzo, la leggerezza del loro intreccio a base di fibre naturali è sufficiente affinché possano veleggiare senza peso; sono rari – come è giusto che sia – ma se ne trovano ancora e ne vedremo presto di nuovi.

C’è invece un’altra categoria di fotografie che possono trasformarsi in tappeti volanti: qui non è più la natura a offrirsi come modello ma le storie (piccole e grandi) che sono racchiuse all’interno di queste immagini e che a volte, un po’ come per magia, vengono fuori per essere raccontate.

Pochi giorni fa mi è capitato un episodio particolare, simile a un altro accaduto circa tre anni prima; è grazie a questi imprevisti che oggi voleremo da Ankara a Viareggio: due città, due fotografie, due storie solo apparentemente diverse.

  

Per un periodo della mia vita – circa dieci anni – ho fotografato il mondo delle città; sempre un po’ da fuori e sempre un po’ dall’alto, non mi andava di entrarci proprio dentro, pensavo che mi sarei perso e che il mio sguardo non avrebbe avuto sufficiente spazio per curiosare in giro. Perché alla fine la molla è quella, la voglia di guardare, di trovare un posto dove idealmente mettersi a sedere e contemplare quello che si ha di fronte.

Avevo iniziato a farlo da piccolo, passavo ore a guardare il mondo illustrato da Richard Scarry; c’erano gli animali ad attrarmi ovviamente, ma c’era anche quella piacevole e rassicurante descrizione del mondo, come se si srotolasse da solo di fronte ai miei occhi sapendo che ogni cosa sarebbe finita al suo posto; le professioni, i negozi, le case. Fateci caso, il punto di vista in quei disegni è sempre un po’ dall’alto e un po’ distante, come nella fotografia di paesaggio, come nei sogni; raramente sogniamo con i piedi per terra ma sempre un po’ rialzati, una strategia che la nostra mente adotta per avere un maggior controllo di quello che abbiamo attorno.

Anche dalle mura della mia città ci sono molti punti di vista simili, ho passato parecchio tempo a guardare giù senza particolari scopi; guardavo, semplicemente, chi entrava e chi usciva, chi parcheggiava e chi ripartiva, a volte cercavo di prevedere la traiettoria che avrebbero seguito le persone, se indugiavano allora osservavo la scena con più attenzione, come se l’intensità del mio sguardo potesse spingerle nella direzione giusta. Vederle ripartire seguendo il percorso che avevo previsto era una bella sensazione, fa sempre piacere esser d’aiuto al prossimo.

Adesso, anziché in ambienti urbani preferisco trovarmi in altri scenari, sto più volentieri immerso nella natura, preferisco aggirarmi tra gli alberi piuttosto che tra le case, mi piace sentire il rumore del vento anziché quello dei tram, eppure da un punto di vista fotografico le modalità di ricerca non sono troppo diverse, si tratta sempre di dare un ordine a qualcosa che inizialmente sembra non averne, giungla urbana o giungla vera da questo punto di vista si equivalgono.

Fotografare mondi densamente popolati di persone (anche se non si vedono) può portare però delle sorprese piacevoli, un paio di storie sono qui a testimoniarcelo.

Piccola storia n.1

Qualche tempo fa ricevetti una telefonata, era una signora, parlava bene italiano ma dall’accento si capiva che era straniera, mi disse che stava a Lucca da un po’, mi chiese se ero un fotografo e se anche io stessi a Lucca: non capivo cosa volesse, sembrava sapesse già delle cose di me, come se mi avesse studiato e cercasse delle conferme. Poi iniziò a essere più precisa, era incuriosita da una fotografia, mi chiese se per caso ne avessi mai scattata una ad Ankara, in particolare nel quartiere di Koleji, ancora più in particolare una in cui si vedono due edifici ai lati – uno rosso, uno carta da zucchero – nel mezzo invece un varco in cui lo sguardo risale le case fino alla cima della collina dove il minareto tocca le nuvole.

Un po’ stupito dalle domande risposi, «si ho presente la foto, l’ho fatta io, nel 2011, ma scusi, perché me lo chiede?». «Perché lei ha fotografato casa mia, io ho vissuto lì, nel palazzo azzurro, per ventidue anni prima di trasferirmi in Italia». Silenzio. Non sapevo cosa dire, ero commosso da quella sensazione stranissima in cui sentivo fondersi assieme una grande intimità con un’altrettanto grande estraneità.

Le nostre vite si erano sfiorate nonostante gli anni e i chilometri di distanza, adesso sarebbe stato giusto incontrarsi di persona.

«Le va se prendiamo un caffè?», le chiesi.

«Volentieri», mi rispose.

Ci vedemmo l’indomani, ai tavolini del bar Taddeucci, in Piazza San Michele.

Ankara Koleji_Foto di Filippo Brancoli Pantera

Piccola storia n.2

La settimana scorsa mi ha scritto una ragazza, non la conosco, non ci siamo mai visti, lei dalla Toscana si è trasferita a vivere in California; per caso le è capitato di vedere una foto che feci tanti anni fa, nel 2007, al Muraglione, in Darsena, a Viareggio. Le interessa, mi chiede informazioni al riguardo. «Si dovrei ancora averla da qualche parte, ma come mai ti interessa tanto?» le ho chiesto. «Perché sono Maria – mi ha risposto – quella della scritta sul muro; fu Niccolò a farla in uno dei tanti momenti di rottura della nostra storia adolescenziale, stavamo insieme all’epoca e insieme stavamo anche scoprendo che non era con un uomo che avrei voluto condividere i miei sentimenti. Per me questa foto rappresenta la sintesi di quegli anni, con tutto l’amore e la sofferenza che puoi immaginare.»

Silenzio. Il solito silenzio che avevo sentito con Emel – la signora turca – l’ho risentito adesso con Maria, è il silenzio che serve per sentire emergere le vite degli altri nascoste nelle pieghe delle fotografie, è per quello che non voglio inserire le persone nei paesaggi, farebbero troppo rumore e non potremmo far caso a tutte le altre storie che invece riempiono il mondo attorno a noi; spesso sono anche belle.

Viareggio_Foto di Filippo Brancoli Pantera
Condividi questa pagina:

lascia un commento