Oggi ospitiamo il racconto di Marco Pellegrini dal titolo ‘Johnny’, un racconto inedito ambientato a Lucca e, precisamente, a Sant’Alessio.
L’AUTORE SI PRESENTA…
Il mio viaggio inizia nella graziosa città di Lucca situata nel cuore verde della Toscana in una giornata tempestosa di Marzo di 32 anni fa.
Cresciuto e protetto all’ombra delle mura ho iniziato a muovere i primi passi nel mondo cercando la mia strada.
Cambio idea spesso e corro, corro forte dietro ai miei sogni.
Tutto quello che sono l’ho messo in quello quello zaino sgualcito e logoro che continuo a portarmi appresso.
Lo scrivo su quel foglio di carta immacolato che profuma di libertà.
Queste sono le mie storie, i miei racconti.
Questa, è la mia vita.
Marco Pellegrini
JOHNNY
Dopo aver sonnecchiato a lungo nelle giornate infuocate di luglio e agosto, il vento sornione e ridente che già teneva in grembo i timidi germogli delle promesse di un autunno ancora lontano, era tornato a spargere il suo alito fresco sui campi dietro casa che si perdevano fino a incontrare, poco prima dell’orizzonte, gli argini erbosi dietro cui si nascondeva il fiume ridotto dalla calura e dalla scarsità di piogge di quell’estate rovente, a un rigagnolo bluastro.
Il soprannome Johnny me lo affibbiarono in una giornata di fine estate su di un campo di granoturco, appena falciato, nei pressi di Sant’Alessio, il paese in cui sono cresciuto. Un paesino agreste localizzato sulla sponda destra del Serchio, a un tiro di schioppo da Lucca, un posto che si impegna ogni giorno a mostrarti quanto poco ci voglia a meravigliarsi delle piccole gioie del mondo. Quell’abitato, popolato da 2000 anime scarse, per me è stato il fulcro di tutto, e ancora adesso, dopo anni di vita vissuta e dure lezioni che per forza di cose ho dovuto imparare, continua ancora ad esserlo.
– «Guarda un po’ dove vai? Ehiii! Ma Sei impazzito?». Provai a sterzare per evitare la balla di fieno appena pressata e sputata fuori dal trattore ma, sapendo che i freni di quel catorcio su due ruote che chiamavo bicicletta erano andati completamente da chissà quanto, feci del mio meglio per limitare le conseguenze di quell’impatto riuscendoci, almeno in parte.
– « Jonny ma che ti salta in testa?», urlò Pietro, compagno di merende e mio migliore amico di infanzia, guardandomi con un’espressione che era una giusta via di mezzo tra il divertito e il contrariato. A quel tempo aveva la faccia butterata da lentiggini che assomigliavano ai grani di caffè in polvere che non si sciolgono tanto bene quando li mescoli col latte per tirar fuori un cappuccino dalle pretese assai modeste.
– «E chi è questo Johnny?», risposi togliendomi un paio di fili spessi di fieno dai capelli e scuotendomi via la terra secca e polverosa di dosso.
– «Tu sei Johnny!».
– «E perché? Perchè di Johnny ne ho incontrato uno solo nella vita e era diverso da tutti i Luca, Matteo e Giovanni che conosco. Aveva qualcosa che hai anche te», rispose con un tono che non ammetteva repliche, come se la cosa fosse ovvia al punto da non essere lecito domandare oltre.
Decisi di non farlo a accettai per buono quel nuovo nomignolo che sulle prime mi suonava così strano da sentire.
Mi chiamo Leonardo, non Giovanni, per cui accettare quel soprannome sulle prime non fu semplice. Magari lo sarebbe stato se mi avessero chiamato Giovanni, in quel caso Johnny un senso poteva anche avercelo. È andata così comunque, e così doveva andare. Succede nella vita che le cose accadano senza un preciso motivo e lì per lì ti paiano persino prive di senso. Accadono e basta e tu devi imparare a conviverci conscio del fatto che anche eventi apparentemente privi di significato sono tasselli che vanno a comporre un mosaico assai più ampio che magari, osservato dalla giusta distanza, ti fa cogliere la vera essenza di quel frammento di colore così minuscolo che credevi insignificante. Capita addirittura, che quel tassello a cui non avevi dato alcuna importanza, si riveli essere più importante e significativo di altre cose a cui hai sempre dato un peso specifico assai maggiore. Da quando ho memoria i ricordi mi dicono che ho convissuto con un solo grande problema che poi, crescendo, ho finito per nascondere anche a me stesso fino a che non ho potuto farlo più.
Ci arriveremo, ma con calma. Già all’asilo ero conscio del fatto che ero diverso dalla maggior parte dei bambini che finivano per ficcarsi le mani nel naso e essere soccorsi prontamente dalla maestra quando ingurgitavano tappi di pennarello, rena o chissà cos’altro.
Non fraintendetemi, io per primo ero un amante di quel particolare tipo di colla dal profumo così promettente, (La Coccoina era la mia preferita) ma, oltre a questo, avevo una smania di fondo che si manifestava soprattutto nei giochi di gruppo pieni di regole immutabili e definite a tavolino. Iniziavo sempre con grande entusiasmo ma poi, arrivavo sempre al punto in cui mi annoiavo e sentivo il bisogno non dico di starmene per conto mio, perché stare in mezzo alle persone mi è sempre piaciuto, ma di sovvertire le regole e creare qualcosa di diverso, portando un briciolo dell’enorme immaginazione che avevo dentro in quello che facevo.
Il primo giorno di scuola mi fecero vedere quello che da quel giorno sarebbe diventato il mio banco. Non che fosse mio davvero, ma ogni giorno dovevo sedermi lì perché è così che bisognava fare. Qualcuno doveva averlo deciso ma a me tanto bene non andava.
Quel giorno dovevo avere due occhi spauriti e giganteschi, dato che la maestra Gioia si prese persino la briga di accompagnarmi al banco con un sorriso tirato sul viso che pareva quasi una corda d’arpa. Andavo bene, i miei erano contenti. Ero un bravo bambino, molto gentile e cordiale con tutti, a volte anche troppo. Trascorsi le elementari su quel banco, crebbi di qualche pollice di statura, mi caddero i denti da latte e vennero sostituiti quasi tutti da quelli ben più duri che poi necessitano del dentista. Tanto che, a un certo punto, avrei dovuto mettermi l’apparecchio, ma la cosa non mi piaceva e preferiì lasciar perdere. Questo è il motivo per cui adesso mi ritrovo con i denti un po’ storti, ma direi che c’è di peggio. Le medie furono più turbolente. Il mio amico Pietro, artefice del mio soprannome, iniziai a vederlo sempre di meno perché si era iscritto a una scuola diversa dalla mia e quei lunghi e assolati pomeriggi trascorsi a cavalcare le bici sotto il sole di un’estate che pareva infinita, assieme alle balle di fieno e al cinguettio delle rondini che impari a conoscere come il fischio di tuo nonno che a sera ti richiama a casa, ben presto, divennero ricordi che ogni giorno sbiadivano sempre di più. Il pulmino giallo del Comune mi pescava davanti casa ogni mattina e mi scaricava di nuovo lì alle due meno un quarto, tutti i giorni tranne il sabato che per me era il giorno più bello della settimana. Mio papà aspettava nel parcheggio sterrato dietro scuola adombrato da cipressi che erano assai più imponenti di quelle montagne di vetro e cemento con cui oggi giorno crediamo di abbellire le città. Esistono anche in altre parti del mondo i cipressi ma qui da noi, in Toscana, sono connaturati all’ambiente che abitano. Ne fanno parte in modi che non ritrovi in nessun altro luogo. In quel periodo,mi invaghiì di una ragazza che era la più bella della scuola. Provai a scriverle un biglietto mettendoci tutto il sentimento di cui ero capace e lei, per tutta risposta, lo strappò davanti all’intera masnada di studenti radunata sul piazzale davanti alla porta di ingresso in attesa che finisse l’assemblea sindacale dei professori per poter entrare. Quella fu la fine della storia e mi ci volle del tempo per digerire quella delusione e tornare a guardare le ragazze come se fossero esseri umani e non pipistrelli o roba del genere. Perchè i pipistrelli? Mi hanno sempre fatto un po’ di paura e ancora oggi quando sento il fischio stridulo con cui annunciano il calar delle tenebre tanto bene non sto. Guardandomi allo specchio il giorno dell’esame di terza media capì che non ero più un bambino. Alcuni segni della peluria che di lì a poco avrebbe iniziato a invadermi il viso, ispessendosi e infoltendosi anche in altre parti del corpo che potete benissimo immaginare da soli, erano già visibili sulle guance che perdevano progressivamente la rotondità distesa di quando si è bambini.
Ho sempre amato gli sport ma tanto bravo non lo sono mai stato. Ne ho iniziati parecchi: nuoto, tennis, calcio, tutti poi miseramente abbandonati quando sentivo che la mia parte in quella particolare storia si era conclusa. Il mio grande sogno a differenza di molti dei miei compagni di classe, non è mai stato quello di diventare un campione o giocare in serie A, a me piaceva la musica. Ce l’ho dentro da sempre, ma dovevo arrivare a comprenderlo con i miei modi prima di riuscire ad accettarlo. Mio padre aveva imparato a suonare il piano prendendo lezioni da sua zia Teresa quando era piccolo e aveva provato più volte a tramandarmi quella sua passione, mettendomi a sedere su quello sgabello che per me equivaleva alla tortura peggiore che potessero infliggermi. Tutte quelle righe e quelle note infilzate nel pentagramma tra diesis e bemolle non avrebbero mai fatto per me. Mani da aprire e chiudere sui tasti, pedali da premere e dita da inarcare nel modo corretto erano tutte cose che stavano dentro gli schemi e io, un tipo da schemi non lo sono mai stato anche se, uscire fuori dalle righe, per quanto poetico e sognante possa sembrare, è anche assai difficile. Quello che ancora dovevo capire è che nemmeno la musica sta tutta in mezzo alle righe e agli spazi in cui si scrive per poi essere riprodotta. Alcuni puristi storceranno le dita aguzze puntandole impietosamente verso le blasfemie che vado raccontando ma, per quando riguarda la mia di storia che ha poco a che spartire con l’opinione comune e i metodi universalmente noti e accettati, posso dirvi che ho imparato a vivere quando ho capito che per farlo dovevo star fuori da quei maledetti schemi. Cos’è mai l’arte alla fine,se non libertà?.
Capii quello che avrei voluto fare nella mia vita il giorno del mio quindicesimo compleanno. Era il 1995 e le pareti di camera mia erano tappezzate di poster di gruppi rock. Ce ne erano per tutti i gusti: Led Zeppelin, Rolling Stones, U2 e, in mezzo alla parete c’era lui, il mio idolo assoluto: Bruce Springsteen. All’epoca portavo i capelli piuttosto lunghi e vestivo sempre di nero, o comunque con jeans strappati e magliette scure. Le scarpe d’ordinanza erano le Converse. Estate o inverno che fosse non faceva alcuna differenza anche se il freddo, in alcuni giorni d’inverno che erano assai più rigidi degli altri, ti costringeva a scaldarti le dita dei piedi stringendotele tra le mani da sopra la tela.
Il vano portaoggetti ammassato contro la parete di fronte al mio letto, tracimava costantemente, spargendo sul pavimento di camera mia le cose più disparate. Musicassette principalmente. Un amico di allora, batterista in una formazione punk dal nome altisonante di Squattrins mi aveva procurato la registrazione del leggendario concerto di Springsteen a San Siro nell’85 che avevo ascoltato così tante volte da portare quel nastro al consumo. Mia madre tornò a casa con un pacchetto dalle dimensioni smisurate che mi fece trovare sull’unica poltrona del salotto su cui non voleva che nessuno si sedesse perché era anche la sola ad essere minimamente presentabile di tutta la casa. Non sapevo cosa aspettarmi dato che i miei non erano tipi da regali in generale e, di certo, non da regali costosi. Quello però, aveva tutta l’aria di esserlo. Il 15 Aprile del 1995, per la prima volta mi ritrovai a tenere in mano una chitarra. Un’acustica per l’esattezza. Passai le dita sul manico di legno lucido che aveva il profumo dei sogni più belli e avvertì le corde ruvide e spesse sotto le mie mani. Un attimo dopo, senza sapere bene come si facesse presi uno dei plettri in dotazione e lo passai sulle corde. SDREEENG. La scossa che provai in quell’istante, il suono promettente di quelle corde accesero dentro di me un riverbero d’infinito. Iniziai a prendere lezioni da un maestro privato. Progredii spedito fino a che il suo approccio si discostò dall’accademismo poi, quando iniziò a ripropormi le note infilzate che già in passato avevo tanto odiato, ci misi poco a stufarmi. Smisi di andare a lezione dopo aver imparato i primi rudimenti ma, a differenza di tutte le altre volte in cui avevo intrapreso e poi mollato, non lo feci. Tornavo a casa da scuola, mi chiudevo in camera, accendevo la radio e cercavo di riprodurre come meglio potevo quello che usciva da lì dentro. Furono i mesi più frustranti della mia vita. Mi pareva di non arrivare mai a capo di nulla. E più mi intestardivo e più difficoltà nascevano come funghi velenosi, quasi mortali. Più volte fui sul punto di mollare ma non lo feci mai, perché suonare la chitarra per me equivaleva a vivere. Era l’unica cosa che riusciva a dare un senso vero alle mie giornate, un faro luminoso che si era acceso improvvisamente nella mia vita e avrebbe rischiarato ogni mio passo da lì in poi. Il liceo mi servì per capire la sottile differenza che separa una vita ordinaria da una straordinaria ma quella lezione, a ben vedere, non la imparai granchè bene dato che finì per iscrivermi alla facoltà di economia su suggerimento dei professori, col placido benestare dei miei genitori. Avrei preferito lettere se proprio avessi dovuto fare l’università ma, dati i miei voti alti e la mia propensione allo studio, tutti avevano convenuto sul fatto che sarebbe stato più proficuo seguire un percorso accademico più gratificante e utile. Ma la mia di opinione? Ah, una cosa. I numeri li ho sempre detestati.
L’estate dopo la maturità, in una sera fresca di fine luglio mio padre mi chiese di raggiungerlo sugli scalini che si allungavano al di la della veranda, protendendosi verso il giardino minuscolo e soprendentemente rigoglioso che la mamma custodiva con tanto amore. Ricordo ancora lo scricchiolio prodotto da quel legno antico ad ogni minimo movimento. Abitavamo in una piccola casa di campagna abbarbicata alle altre, in una corte che era lì da ancor prima che nascesse mio nonno. Le sere d’estate quando il vento veniva su dal fiume e arrivava come un vecchio amico a portare un po’ di refrigerio, sedevamo spesso in veranda guardando il mare di lucciole che ridavano vita al nero violento dei campi immersi nell’oscurità. In sottofondo si udiva il frinire dei grilli e il gracidio delle rane. Suoni questi che porto sempre con me.
– «Ti servirà per il lavoro Leo. La vita è piena di sacrifici e dovresti ringraziare il cielo che io e tua madre riusciamo con quei miseri risparmi che abbiamo accumulato a permetterti un’istruzione superiore».
– «Sì ma non è quello che voglio», ribattei con voce ferma.
Mio padre mi guardò diritto negli occhi e rispose: «Qui non si tratta di quello che vuoi, ma di quello che va fatto». Aveva i muscoli del viso tirati, lo sguardo indurito.
– «Per chi?»
– «Ma per te Leo, e per chi sennò?».
– «Ma non mi interessa prendere una laurea così tanto per fare, preferirei studiare musica…»
– «La musica non ti porta da nessuna parte!», tagliò corto mio padre voltandosi verso la porta socchiusa della veranda che lasciava intravedere un lembo di pianoforte. Negli occhi aveva qualcosa che dopo esser stato via per chissà quanto, era tornato ad abitarli per qualche istante. Continuammo quella conversazione che non riuscì a condurci da nessuna parte. Ognuno rimase con le sue convinzioni ma fui io a sbagliare. Scelsi la via più breve e accontentai tutti fuorchè me stesso, iscrivendomi a economia. Di giorno studiavo cose noiose che immagazzinavo nella memoria al solo scopo di passare gli esami e di sera, almeno tre volte a settimana, suonavo con un paio di amici nel garage del mio batterista di allora che ci permetteva di far casino fino a mezzanotte passata con buona pace dei vicini.
Il mio modo di suonare migliorò progressivamente a causa della mia tenacia e della gioia che provavo nell’esprimere quella parte di me così vera e autentica. Ognuno di noi ne ha una e l’unica cosa che conta nella vita è trovare il coraggio di tirarla fuori e portarla al mondo. Iniziammo ad esibirci all’aperto e componemmo alcuni pezzi che ebbero un buon riscontro nel panorama underground toscano. Finimmo persino su qualche rivista di settore. Fu un periodo straordinario della mia vita. Sapevo di essere sulla strada giusta perché sentivo che ogni passo era il risultato di una scelta che io stesso avevo avuto il coraggio di fare.
L’unico tra di noi che aveva la macchina era Andrea, il bassista del mio gruppo di allora. Un tipo strano sulla venticinquina fissato con i Velvet Underground che vestiva sempre con stravaganti camicie hawaiane e un giacchetto di jeans mezzo scorticato dal tempo; Andrea aveva l’onere e l’onore di introdurci a un mondo più adulto e viscido in un certo senso, dal ventre molle appesantito dai compromessi che prima ingoi e poi arrivi ad affogare nell’alcool durante il weekend. Avevo pochissimi soldi in tasca quando uscivo. Non navigavamo in buone acque a quei tempi ma io stavo bene. Tutto ciò che avevo me lo guadagnavo con la musica e di bisogni ne ho sempre avuti molto pochi. Mi laureai col massimo dei voti e fui chiamato da una prestigiosa compagnia assicurativa. Mi proposero un lavoro fisso, un buono stipendio e una garanzia economica che fino a quel momento mi era sempre mancata. I miei lo seppero e furono felici e io accettai a malincuore. Le giornate divennero lunghe e stressanti. La sera tornavo a casa e l’unica cosa che riuscivo a fare era sdraiarmi sul letto e attendere che la tv mi stordisse sino alla perdita di coscienza dopo aver tirato giù la cena succulenta che mamma preparava ogni sera a me e a papà. Ci misi poco ad essere mangiato e digerito dall’ingranaggio. La chitarra iniziò a prender polvere e finì in un angolo buio, assieme alla mia vita. Molti dei miei amici iniziarono a sposarsi, io stesso conobbi una ragazza che però di me aveva visto solo la parte che ero impegnato a recitare. Un tipo con un lavoro rispettabile e ben pagato con cui metter su famiglia, durò poco. Il giorno del mio trentesimo compleanno guardai fuori dall’ufficio in cui lavoravo, un posto squallido nella periferia industriale di Porcari, e mi sorpresi a domandarmi cosa stessi facendo della mia vita. Evitai di rispondere e tornai a sedermi. Mio padre morì una mattina di Novembre nel suo letto, dopo aver combattuto una lunga malattia con il male oscuro che alla fine, come spesso accade, ebbe la meglio. Ero chino sul letto in cui spesso dormivo da bambino in mezzo ai miei genitori quando non riuscivo a prendere sonno. Respirava a fatica ma ci mise tutto l’impegno di cui era capace per urlarmi col poco fiato che gli rimaneva in gola le ultime parole che pronunciò prima di abbandonare questo mondo:
– «Vivi la tua vita».
Non capii sulle prime ma piansi assai più forte quando afferrai il senso vero nascosto in quelle parole. Quando accadde, era già spirato. Lo seppellimmo nel cimitero del paese in una giornata assolata e fredda. Al funerale c’era una bella folla. Erano tutti vestiti di nero con facce tirate all’ingiù da funi invisibili. Ci aggrappiamo alle pietre fino a che queste non ci copriranno per l’ultimo sonno. E allora a cosa sarà valso aver vissuto con la paura che esser se stessi non fosse abbastanza? Il giorno in cui seppellii mio padre capii che la vita, in fondo, sta tutta nel coraggio di credere in chi si è davvero. Tornai al lavoro il lunedì seguente, con uno spirito rinnovato. Timbrai alle cinque spaccate e uscii, lasciando che le incombenze per le settimane seguenti attendessero il loro tempo. Era giunto il momento di pensare alle cose importanti. Ripresi a suonare la chitarra, ci volle un po’ a riprendere la manualità ma certe cose non le dimentichi, un po’ come andare in bicicletta.
Spinto dalla necessità di fare della mia vita qualcosa di cui fossi orgoglioso mi iscrissi a una Masterclass di chitarra e assimilai quegli schemi al solo scopo di riadattarli al mio modo di suonare, colmando le lacune tecniche che avevo sviluppato nel corso degli anni. Tornavo a casa stanco, stravolto, ma quando imbracciavo la chitarra era come se tutte le energie che mi avevano abbandonato tornassero centuplicate, spingendomi a macinare note e accordi su quel manico un po’ più logoro e vissuto. Una mattina di qualche mese dopo, era quasi estate, mi svegliai con in testa un’idea. Aveva la forma di una chitarra, il sorriso di un bambino, e il respiro della libertà che andavo cercando da sempre. Alcuni giorni dopo ne parlai a un amico commercialista che avevo conosciuto ai tempi dell’università e decisi che avrei rischiato quel che era necessario. Lui fece un gran sorriso e mi abbracciò dopo aver assecondato la mia follia. Ognuno di noi ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a credere alle proprie follie e Michele era uno di quei rari frammenti di conchiglia che rimangono sulla mano quando l’onda impetuosa spazza via le cose effimere e di poco conto. Il primo di Ottobre lasciai il lavoro conscio del fatto che, alla fine, dovevo pure ringraziarlo perché era servito per finanziare una parte del sogno che avevo scelto di vivere. Tante strette di mano, pochi rimpianti.
– «Ma chi te lo fa fare con uno stipendio del genere? Sei un pazzo, ma ci hai pensato bene?». Sorridevo e assecondavo i colleghi che scuotevano la testa con una convinzione anche troppo esagerata. Ho imparato a leggerle bene le persone nel corso della vita e negli occhi di molti di loro vidi invidia e ammirazione prima di uscire dalla porta d’ingresso a testa alta. Mi voltai solo un’istante ad osservare quell’edificio asettico tinto di bianco industriale che avevo odiato per così tanto tempo prima di capire che nessuno mi teneva lì dentro con la forza. Ero io stesso a imprigionarmi con le mie stesse mani per paura…di cosa? Ecco appunto. La cosa che dovremmo temere sopra ogni altra, in fondo, è non trovare il coraggio di vivere una vita che ci rispecchi e riesca a sorprenderci ogni giorno. All’inaugurazione vennero in tanti. Ex colleghi, amici di vecchia data che non vedevo da un sacco di tempo. Persino Marta, la mia ex ragazza, che si era sposata l’anno precedente con l’allenatore del Pisa ed era incinta di alcuni mesi.
Il 23 di dicembre tenni la prima lezione di chitarra della mia vita nella nuova scuola che avevo aperto, in un ex deposito gomme riconvertito a oasi della musica, e il mio primo studente si chiamava Matteo Gesti, era un ragazzino di soli sette anni. Quando prese posto sullo sgabello davanti a me, in quell’espressione un po’ timida e impaurita colsi la stessa scintilla che mi accende ogni volta che tengo in mano una chitarra.
– « Ciao Matteo, sei pronto per scoprire quanto lontano si possa arrivare viaggiando con la propria migliore amica?».
Mi guardò con fare interrogativo. Era un ragazzetto adorabile coi capelli corti tagliati a spazzola. La chitarra era quasi più grande di lui.
– «Intendi la chitarra?».
– «Proprio quella».
– «Ma io non li so leggere gli spartiti».
– «Ti svelo un segreto, ma devi promettermi di non dirlo a nessuno – Lui annuii spalancando due occhioni colorati di un verde intenso – Non so leggerli nemmeno io».
Si mise a ridere una risata cristallina e gioiosa: « Ma come facciamo a suonare senza sapere le note?», domandò giustamente.
– « La musica è qui – misi un dito sul cuore – prima che qui.- poi sulla testa», sorrisi.
Ah dimenticavo. Prima di andare è giusto che sappiate che la scuola di musica che ho aperto un paio di anni fa e che a tutt’ora, sebbene con qualche difficoltà alle volte, mi permette di vivere, si chiama Johnny. Perchè? Perchè Johnny è la parte più vera di ognuno di noi e ha un colore che capita di vedere solo quando si capisce che i sogni sono sempre a un passo di distanza da noi e possiamo raggiungerli e persino afferrarli se si trova il coraggio di colmare l’infinitesima distanza che ci separa da essi. Ma cos’è, alla fine, una vita senza sogni?