“Attraverso i nostri occhi”: da Samos a Torino gli scatti dei giovani migranti intrappolati nel campo profughi greco. Un progetto per raccontare, con il loro sguardo, la drammatica quotidianità della vita nell’hotspot.
Istantanee di vita quotidiana, difficile e faticosa, di lunghe code per il cibo e giornate vuote, di lotte, scontri e incontri, ma anche di tramonti, di sogni, di speranze. “Attraverso i nostri occhi” è il progetto fotografico che racconta dall’interno il campo profughi costruito sull’isola di Samos, in Grecia, e raccoglie in una mostra le immagini scattate da ragazze e ragazzi che da mesi sono costretti a vivere nell’hotspot. Un modo concreto e tangibile per posare lo sguardo su una realtà che deve uscire, quanto prima, dall’oscurità.
Dietro l’obiettivo della macchina fotografica, forse per la prima volta, non ci sono giornalisti o fotoreporter, ma studenti e studentesse di Mazí, la scuola aperta da “Still I Rise” – associazione italo-greca nata per aiutare i profughi concentrati nell’hotspot di Samos – per offrire ai minori rifugiati un’opportunità di educazione e di resistenza, attraverso l’attività didattica e la formazione psicosociale.
“Attraverso i nostri occhi” svela, in modo intimo e disarmante, le difficoltà che i ragazzi e le ragazze dagli 11 ai 18 anni si trovano a dover fronteggiare ogni giorno nel campo profughi di Samos. C’è Mahdi, di 15 anni, che ha fotografato le case di fortuna costruite appena fuori dal campo, in una terra di nessuno chiamata “The jungle”, la giungla, o il filo spinato che lo circonda, elemento terribile e angosciante ma in cui riesce a trovare, con la purezza del suo sguardo, una scintilla di bellezza. C’è Samaneh, di 16 anni, che sceglie di inquadrare la lunga fila di persone dal dottore, per raccontare la sua attesa di oltre 14 ore prima di riuscire ad essere visitata, o la ragazza in scooter che le fa intravedere un mondo in cui le donne possano essere libere anche di guidare, cosa che in Iran, la terra da cui è fuggita, non è permessa. E c’è Omid, di 15 anni, con la sua foto di sacchi della spazzatura, uno dei grossi problemi di Samos, e Zeynad, di 17 anni, che inquadra un gatto, per raccontare come i topi siano così grossi da riuscire a spaventare anche i felini che girano per il campo, ma che riesce a rendere un po’ più bello il container in cui deve vivere, decorandolo con qualche piccola luce.

A partire dal mese di dicembre 2018, Mahdi, Samaneh, Omid, Zeynad e i loro compagni hanno potuto partecipare ad un laboratorio di fotografia, condotto da Nicoletta Novara, fotografa e ideatrice del progetto, articolato in diversi moduli: dalla storia della fotografia al ritratto, dal movimento all’utilizzo della luce, dal bianco e nero alla street photography e ad elementi di editing. Al termine, ogni studente ha ricevuto una Kodak usa e getta a colori, con il compito di raccontare la propria vita al di fuori della scuola. Il risultato finale è una mostra di circa 200 scatti, stampati in formato 10×15, frutto del punto di vista degli studenti e della loro interpretazione della realtà in cui sono costretti a vivere.

“L’hotspot di Samos sembra lavorare sul filo sottile dell’annientamento umano, piuttosto che sul fronte dell’accoglienza. I nostri studenti combattono ogni giorno una battaglia personale di resistenza contro un sistema che non li percepisce come esseri umani in una condizione di fragilità, quanto, piuttosto, come una entità scomoda e non degna di far parte della società civile”, spiega Nicoletta Novara.
Le immagini mostrano la spazzatura che si erge a cumuli, attorno a container allagati dalle piogge. Imprimono sulla carta stanze squallide, danneggiate e sporche, che i ragazzi cercano di abbellire anche solo con qualche luce colorata. Portano alla luce la popolazione felina del campo e la speranza che possa contrastare i ratti, che affollano l’area in cui vivono, ammassate, migliaia di persone. Mostrano i bagni comuni e la loro indecenza, raccontano le proteste della popolazione rifugiata nei confronti della gestione del campo. Fotografano il cibo e le interminabili ore di coda necessarie per ritirarlo, mostrano le donne in paziente attesa d’una visita medica.
Eppure, gli studenti hanno consegnato anche fotografie di speranza. Scatti che narrano di un mare bellissimo, delle colline e degli alberi sull’isola di Samos e che raccontano l’entusiasmo nella scoperta dell’Europa e della nostra cultura.
“A Mazí abbiamo usato la fotografia per restituire loro la prima persona singolare”, sottolinea Nicoletta Novara. “Non volevamo che qualcun altro parlasse per loro, ma abbiamo cercato di comprendere meglio – attraverso i loro occhi – la condizione di rifugiato. I nostri studenti ci hanno sorpreso e stupito con le fotografie realizzate facendoci capire quanto sia dura la loro quotidianità, ma anche il fatto che non abbiano perso la capacità di riconoscere la bellezza.”
La mostra, inaugurata in occasione del Salone del Libro di Torino, sarà visibile al Palagiustizia di Torino fino al 1 giugno 2019.