Oggi è la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Venne scelta questa data per ricordare il brutale assassinio delle tre sorelle Mirabal, attiviste politiche nella Repubblica Dominicana, che si opposero alla tirannia del dittatore Rafael Leonidas Trujillo e che furono uccise il 25 Novembre del 1960. Patria, Minerva e Maria Teresa, questi i loro nomi, passano alla storia con il nome di Las Mariposas (le Farfalle) per il coraggio di opporsi a una dittatura sanguinaria e per una strenua battaglia in favore dei diritti femminili. Questa ricorrenza fu istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1999 invitando i governi, le organizzazioni e i media a sensibilizzare la società su questo fenomeno.
Ancora oggi troppe volte leggiamo notizie agghiaccianti, storie terribili di morte, persecuzione, violenze psicologiche; i femminicidi in Italia, nel 2020, sono 91 (dati Eures dei primi 10 mesi dell’anno), un numero che fa rabbrividire. Dietro a una semplice cifra restano famiglie distrutte, annichilite dal dolore, richieste d’aiuto; spesso la rabbia cocente di non essere arrivati in tempo per salvare una vita. Ancora tanti di noi sottostimano il problema o lo ritengono lontano, come un accadimento che non scuoterà mai il proprio vissuto. Proprio per questo noi oggi vogliamo scrivere e parlare di questo fenomeno, perché le nostre parole siano un contributo alla lotta alla violenza sulle donne.
Molti non hanno chiaro cosa sia la violenza di genere, cosa sia violenza e cosa non lo sia. Nella Convenzione di Istanbul troviamo la definizione di violenza di genere: “Tutti gli atti di violenza contro il genere femminile che si traducono, o possono tradursi, in lesioni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della liberta”; in tale documento viene riconosciuta la violenza sulle donne come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione.
L’inizio della pandemia e il relativo lockdown hanno messo a rischio le donne vittime di violenza domestica, confinate in casa con l’autore delle violenze. Senza contare che si sono ridotte le possibilità di poter chiedere aiuto.
Ad oggi, i dati relativi al periodo del primo lockdown ci dicono che le chiamate alla linea dedicata alla violenza sono diminuite, ma i casi di violenza domestica sono aumentati in tutti i paesi della Comunità Europea. Potremmo continuare, mettere dati e statistiche; invece vi vogliamo raccontare una storia.
Ve la racconto io che sto scrivendo questo articolo.
Mi chiamo Elisa, ho 44 anni e sono stata vittima di stalking nel 2014.
Mi chiamo Elisa ma potrei chiamarmi Silvia, Paola, Giulia.
Numeri e nomi contano poco. Contano di più le parole e forse i miei occhi, se li poteste vedere, ma non è possibile, e quindi contano solo le parole. Sono una donna fortunata: sono viva, non mi hanno picchiato o stuprato, non mi hanno sfregiato il volto con l’acido. Sono più fortunata di Silvia, Paola, Giulia.
La mia storia è uguale a quella di tante altre donne: un amore sbagliato, una relazione arrivata al capolinea che decido di chiudere.
Una cosa triste, un dispiacere e un dolore, ma una situazione toccata ad ognuno di noi.
E invece per me segna l’inizio di un inferno, che inizialmente fatico a dargli un nome, a delineare, perché ero stordita dall’incalzare di avvenimenti senza senso, assurdi.
La persona che hai avuto vicino per tanti anni improvvisamente diventa violenta e ti dice: “Tu non mi lascerai mai” e cerca di impedirti in tutti i modi di andartene da casa. Non me ne capacito, la storia è finita, potrebbe restare un affetto, un ricordo, a legarci, e invece c’è questa frase secca, decisa, definitiva: “Tu non mi lascerai mai”.
Riesco ad andarmene, lasciando tutte le mie cose nella casa che abbiamo condiviso. Non le riavrò mai più indietro, perché finiranno nella spazzatura. (Nel disprezzo di gettare tutte le mie cose più care, i miei libri, i miei disegni, tutti i ricordi di una vita intera, c’era già l’indizio più feroce di quello che mi aspettava).
Iniziò così, una fredda sera di marzo, un calvario durato mesi e mesi.
Chiamate continue, di giorno e di notte, pedinamenti, il suono del campanello in piena notte mentre io trattenevo scioccamente il respiro, non sentendomi più sicura tra le mura di casa mia. È un’escalation di aggressività, tra insulti e la sua costante e fastidiosa presenza: fuori dal lavoro, davanti casa, fino ad arrivare a violare il mio domicilio e a entrare in giardino, mettendo tutto a soqquadro.
Mi sembrava un film dell’orrore, impossibile da raccontare.
Come puoi raccontare di aver trovato sulla tua auto un mazzo di rose decapitate? Come puoi dimostrare che il tuo cane è stato ucciso e che è stato lui? L’ansia e l’angoscia ti sommergono, ma non te ne rendi conto e continui a sperare che tutto finisca.
Sono poi arrivate le minacce di morte. E, stremata, sono andata a denunciarlo. Lì in caserma ho dato un nome a tutto quello che stava succedendo: stalking.
Stava capitando davvero e succedeva a me, ero diventata un oggetto, non ero più una persona libera di vivere una sua vita; e come oggetto di proprietà di qualcuno potevo essere gettata via, distrutta.
Ricordo, tra i tanti momenti confusi di quel periodo, la frase terribile di un agente che, durante il mio racconto, mi disse, con un certo paternalismo: “Signora, però, sia un po’ comprensiva, lei quest’uomo l’ha appena lasciato”. Questa frase mi è rimasta appiccicata addosso; a volte, di notte, si insinua nella mia mente e ancora mi addolora. È sicuramente una cicatrice comune a tante, troppe donne.
Mi rifiutai categoricamente di cambiare numero di telefono, abitazione, sede di lavoro. Percepivo tutte queste cose come un’ulteriore limitazione della mia libertà e dentro di me continuavo a ripetermi: “Se cedo, ha già vinto lui”.
Furono mesi durissimi fatti di pianti, terrore, attacchi di panico, di capelli caduti per lo stress, di vergogna.
Purtroppo le prove per gli inquirenti non erano sufficienti per procedere in maniera certa. Lui era pericoloso, ma ero io a dovermi difendermi perché loro non potevano fare nulla per me, se non starmi accanto.Fu una cocente delusione, la stessa, spesso mortale, che provano tante donne che si vedono negare un aiuto.
Poi le donne sono ammazzate, sfigurate con l’acido.
Sono stata una donna fortunata. Una donna con la sua famiglia e gli amici a sorreggerla in tutto il periodo. Sono stata fortunata e basta.
Vorrei finire il mio racconto con tre parole.
Paura, vergogna, solitudine.
Chi vive una situazione di violenza si vergogna, si sente indegna, si sente responsabile di quello che le sta capitando e si sente enormemente sola, perché pensa di non poter essere capita e aiutata da nessuno.
Spero che queste tre parole, oggi, nella Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, ciascuno le porti con sé e le combatta nella propria quotidianità, per aiutare e sostenere una madre, una figlia, un’amica.
Qui trovate il mio video-contributo: https://www.youtube.com/embed/ac_GfnM6V3A