Il 2020 anno dis-ordinario, serve una “scuola di futuro”. Editoriale di Guido Zovico, tessitore sociale

Cari Amici de L’Ordinario,

quando abbiamo pensato a una rubrica ‘Editoriale’ non avremmo mai e poi mai immaginato di inaugurarla con una riflessione su una pandemia. Ma quello che è successo era imprevedibile e per questo, sembra che anche i pensieri, non trovando dove appigliarsi, non abbiano forma. Invece, oggi più che mai, è importante rimanere lucidi e riflettere, sopratutto per farci trovare preparati quando di nuovo potremo uscire dalle porte delle nostre case e ri-pensare a noi, al futuro e al Paese.

Siamo pertanto molto contenti di ospitare, come editoriale, il messaggio di Guido Zovico, già direttore di importanti festival culturali, ora nel Comitato Padova Capitale europea del volontariato 2020 e, sopratutto “tessitore sociale” molto noto. Leggete questo importante messaggio.

Il 2020, un anno dis-ordinario

In questi giorni scapestrati, in cui tutti noi siamo scaraventati dentro ciò che solo la finzione cinematografica in passato aveva fatto trapelare, qualcuno asserisce il diffondersi del coronavirus al cosiddetto “anno funesto”.

Possiamo tuttavia, sin d’ora, collocare il 2020 a essere un “anno dis-ordinario”. L’anno del disordine globale che dovrà necessariamente riposizionarsi su un nuovo ordine tutto da immaginare. Sicuramente posto di là di un confine (relazionale, sociale ed economico) già solcato e dal quale non si potrà tornare indietro.

Un bivio obbligato

All’inizio dell’anno, in altro contesto, avevo proposto il 2020 come un “anno bivio”. A partire proprio da quel 20-20 che, simbolicamente, prospetta doppia lettura e prospettiva e si pone come una diramazione obbligata: da una parte una sorta di sostanziale continuità nei nostri comportamenti, individuali e collettivi; dall’altra, invece, la decisione di voltare strada e di sperimentare tragitti nuovi anche se non conosciuti.

Perché questo bivio? Per una sorta di stanchezza verso un collettivo “déjà vu”, o “déjà entendu”, di fronte a una serie di questioni sociali del nostro tempo, sia a livello locale che globale. Stanchezza verso una cronicità di situazioni che, a corrente alternata, risuonano a “emergenza”, sollecitate da un fatto di cronaca o rilanciate da innumerevoli “giornate a tema” (che siano nazionali o internazionali poco importa).

Insomma, il nostro “album delle emergenze” (che possiamo anche chiamare povertà, o fragilità) è ormai così pieno di immagini che, sfogliato nel suo insieme, offre un quadro davvero pesante e per certi versi drammatico, quasi irreversibile: emergenza culturale, sociale, educativa, ambientale, politica, infrastrutturale. O quella del debito pubblico. E ancora ciò che deriva dalle varie illegalità (criminale, mafiosa, fiscale, finanziaria, tecnologica…), delle dipendenze, o delle disabilità fisiche, psicologiche e relazionali. Non per ultima quella demografica.

Di fronte a tale scenario il nostro “bivio” è rappresentato dalla paura-rassegnazione o dalla speranza e dall’impegno responsabile. Dal rimanere imbrigliati nel sistema del non-si-può e si-è-sempre-fatto-così oppure dal voler percorrere strade nuove, sperimentando altri percorsi, per divenire agenti di cambiamento attraverso quelle necessarie sperimentazioni che portano all’innovazione.

E ciò non riguarda “gli altri” ma “noi stessi con gli altri”.

Il doppio volto del nostro Paese

Affiora qui la doppia faccia che caratterizza il nostro Paese. Quella (che vediamo dal basso nella nostra quotidianità) che incespica in una coltre di cenere che ricopre le nostre potenzialità, le nostre bellezze, le nostre energie che (con uno sguardo dall’alto) possiamo cogliere in tantissime esperienze e situazioni sparse in ogni angolo d’Italia.

Quella cenere, bruciata nelle mille disfunzioni, che può essere assunta a sinonimo di povertà. Quella economica, certo – che tocca la pancia o che ingorda alcuni portafogli – che è la stessa capace di “far prendere velocemente le decisioni” perché, quando ci sono di mezzo i “schei”, si è pronti a scattare.

Lezioni di futuro, dalla vicenda coronavirus

L’emergenza coronavirus, scombina tutto e mette ancor più sotto i riflettori ciò che nascondevamo nel grigiore della coltre di cenere.

È ovvio che, oggi, tutti noi siamo concentrati a vincere la guerra al virus che, come nei conflitti bellici, lascerà alle sue spalle tante vittime e una serie di macerie sociali ed economiche.

Contemporaneamente, però, non possiamo tralasciare il contesto più ampio.

Il futuro appare più incerto che mai. Dentro l’emergenza odierna, le domande che riguardano la nostra vita individuale e collettiva sono espresse al massimo della loro potenza e le fragilità sono evidenziate nella loro più concreta essenza.

In questi giorni del #restiamoacasa e del #celafaremo dovremmo cercare di frequentare una sorta di “scuola di futuro” che possiamo scovare in tante piattaforme on line e animate da organizzazioni che da tempo sono impegnate a ri-pensare la Comunità. Così come possiamo attivarne una nelle nostre comunità territoriali o di interesse tematico.

Una “scuola” che ci ri-educhi a una maggiore coesione sociale, che appare spontanea in questa piena emergenziale, ma che non va dispersa in una (confidiamo quanto prima) ritrovata ordinarietà.

Una coesione che va raggiunta attraverso una conversione frutto di cambiamento e di convergenza. Quel cambiamento che ci invita a un passo indietro (dal ciò che si è) per farne uno in avanti (al ciò che si diventerà). La convergenza che va trovata nel considerare che la creazione di valore individuale si persegue nella creazione di valore (culturale, sociale, educativo ed economico) condiviso.

Questo “anno dis-ordinario” ci obbliga – in sintesi – a ri-pensare una visione di “comunità Paese” e a ri-scoprire il desiderio-di-dare-vita a nuova vita: umana, sociale, culturale, artistica, imprenditoriale, territoriale.

Uscire dalle emergenze significa far emergere le condizioni per un ben-essere e un ben-vivere di ciascuno in relazione con gli altri, e viceversa. E anche questo lo stiamo ben imparando nelle nostre giornate vissute da reclusi sociali.

Guido Zovico, tessitore sociale

17 marzo 2020

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