Intervista a Elias Naman, scultore dell’animo

Elias Naman

A Carrara, riconosciuta non a caso Città Creativa dall’Unesco nel 2017, l’arte e l’immaginazione sono di casa. Ogni anno giovani da tutto il mondo arrivano all’Accademia di Belle Arti soprattutto per studiare scultura e qualcuno rimane, arricchendo con le proprie capacità quella che fu la terra natìa di Finelli, Tacca e Cybei.

Elias Naman è uno di questi ragazzi che ha deciso di fare di Carrara la sua città del cuore. Nato in Libia, da anni ha il suo laboratorio in via del Baluardo. Prima ancora di entrare nello studio, lo vedo dalla porta a vetri impolverata dal marmo mentre, chino, lavora con lo scalpello alla sua ultima creazione. Mi vede, alza gli occhi e sorride. Ci conosciamo da anni e quando erano più piccole, fece provare alle mie figlie, allora di cinque e sei anni, a scolpire.
Mentre mette la caffettiera sul fuoco iniziamo a chiacchierare.

Elias Naman
Elias Naman, scultore_ ph L’Ordinario

Come è nata Elias la tua passione per la scultura?
“È nata quasi per caso. Quando ero in Siria, dopo la maturità, mi sono iscritto all’Accademia di Belle Arti di Damasco, pensando di fare tutt’altro rispetto alla scultura. Avrei voluto fare il decoratore perché mio padre era falegname e volevo studiare qualcosa che mi avrebbe permesso di integrare il suo lavoro. Da sempre lavoravo con lui.
Invece il primo giorno che sono entrato in aula di scultura ho avuto una folgorazione: ho capito che era lì il mio destino. Ho accantonato tutte le idee e da allora ho pensato solo alla scultura. È come se avessi avuto una visione. In quel momento ho capito che stavo facendo il primo passo sulla strada della mia vita, ecco. Non so spiegarlo, però è stato così”.

 E come sei finito in Italia?
“Allora, studiando scultura, credo che in qualsiasi parte del mondo, tanti come me, si innamorino dell’arte italiana, specialmente del periodo rinascimentale. Io mi ero talmente innamorato studiandola sui libri, che mi son promesso che prima o poi sarei venuto qua. Ho cominciato a informarmi e ho capito che c’era la possibilità di venire a studiare a Carrara. La scultura in marmo in Siria non l’avevo mai toccata con mano. Ho modellato l’argilla, la creta, ma non avevo mai lavorato la pietra. Non era facile, all’epoca, per uno della Siria venire a studiare in Italia. Quando ne parlavo, tutti i miei amici mi prendevano in giro ma poi tutto è filato liscio, come se fosse un segno del destino. Nel 2003 sono arrivato finalmente a studiare all’Accademia di Carrara”.

Una scultura di Elias Naman.

Te la ricordi la prima volta che hai scolpito il marmo?
“Sì, sì, certo, come no?! Ci stavo pensando proprio qualche giorno fa. Siccome provenivo da una scuola in cui non si lavorava la pietra, i professori ci avevano riempito la testa dicendoci come il materiale non contasse nulla: contava solo l’idea. Secondo loro tu eri lo scultore, tu eri quello che aveva le idee, realizzava il bozzetto in creta ma poi ci sarebbero stati gli artigiani a scolpire, lavorando per te. Quando sono arrivato qui e ho toccato il marmo ho capito che loro non avevano capito niente della scultura. Nessuno di loro evidentemente aveva mai scolpito per davvero. Il
contatto tra l’uomo e la pietra è una cosa, secondo me, antica, ancestrale. Quindi il primo contatto che ho avuto con il marmo è stato bellissimo, emozionante. Ho abbandonato tutto il resto. Anche se mi piace molto modellare e lavorare altri materiali, li ho messi da parte: sono stato totalmente rapito questo materiale”.

Mentre Elias parla gli brillano gli occhi. Parlare della prima volta che ha finalmente messo le mani su un pezzo di marmo per trasformarlo in quello che la mente gli dettava lo emoziona, nonostante da allora siano passati oltre vent’anni.

Quindi tu non faresti mai un bozzetto per darlo agli artigiani che lo lavorano?
“Assolutamente no, per me sarebbe un insulto. Per chi riesce e sa lavorare è un’offesa mentre per chi non sa lavorare il marmo è un vantaggio. Diversi artisti contemporanei si avvalgono di questo vantaggio, però alla fine non possono
dire che la scultura ottenuta sia loro. È un ibrido realizzato da un artista e da un artigiano e perde personalità, anima”.

Elias Naman, scultore
Elias Naman, scultore

La figura umana è al centro della tua produzione artistica un po’ come lo è stata per Michelangelo alla fine dei conti. C’è una ragione ben precisa dietro questa scelta?
“Certo, per me l’arte deve comunicare all’essere umano suscitando emozioni e questa è la prima ragione. La seconda cosa, dato che il marmo di Carrara è così ben lavorabile, ha una sua plasticità che si presta molto di più che qualsiasi altro materiale nel modellare la figura umana. Io non posso immaginare la mia arte senza mettere l’uomo al centro anche se la scultura nasce sempre astratta. Prima, infatti, prima bisogna studiare forme, movimento e armonia
poi questa astrazione, dal mio punto di vista, deve essere accompagnata dalla rappresentazione del corpo. Altrimenti, sempre dal mio punto di vista, l’astrazione diventa talmente esagerata da non riuscire a comunicare tanto”.

Mi guardo attorno e vedo che oltre alle diverse opere in marmo statuario, ha anche tre sculture ultimate in portoro, il meraviglioso marmo di Portovenere nero come la pece, striato da venature che tendono a una colorazione dorata.

Quali difficoltà presenta nella lavorazione il portoro rispetto al marmo di Carrara?
“Il portoro è un bel materiale ma ha due difetti principali. Il primo non è molto importante ma diventa interessante nel momento della lavorazione: non si sa mai dove sia rotto o si vada a rompere a causa di qualche difetto. Magari lo lavori da una parte e con le vibrazioni si rompe dall’altra da solo, a volte frana proprio a causa delle venature che lo
caratterizzano. Il difetto più importante invece è che è un marmo molto ricco, molto disegnato di suo e quindi si rischia di non far vedere la figura che si vuole scolpire. O si fanno delle figure molto semplici o non viene valorizzata nemmeno la bellezza del portoro. Ha un’eleganza naturale straordinaria e si deve cercare di combinare con equilibrio la sua ricchezza con opere essenziali”.

Le tue opere sono in diversi Paesi del mondo. Ma che emozione è stata quando ti è stato commissionato la scultura di Sant’Efrem il Siro per il Giardino dell’Università Pontificia a Roma? Un Santo per altro del tuo stesso paese di origine…
“È stata una cosa indescrivibile. Ti racconto questa cosa. Quando sono arrivato a Carrara, il primo anno, ci fu l’alluvione (il 23 settembre del 2003 la città di Carrara fu colpita da un violento nubifragio che causò la morte di due persone e ingenti danni alle case) e quindi sono scappato via. Fu un disastro, fango dappertutto, la gente arrabbiata, io non capivo niente e non sapevo cosa fare. Avevo degli amici a Roma che per quasi un mese mi hanno ospitato e per me fu una grande fortuna. Tutti i giorni giravo a piedi per Roma vedendo e scoprendo tutte quelle cose che avevo fino al momento studiato solo sui libri. Non riesco nemmeno a descrivere quell’emozione, un’esperienza straordinaria girare per le piazze, le chiese. Essendo cristiano anch’io volli entrare nella Basilica di San Pietro e mi venne spontaneo pensare di rivolgere un pensiero a Dio e fu il seguente: fa che un giorno riesca a mettere anch’io un
piccolissimo segno in questo posto. Quasi vent’anni dopo questo sogno si è materializzato. Dal niente ricevo una chiamata da persone che avevo conosciuto vent’anni prima. Mi dissero che attraverso i social seguivano i lavori che facevo e mi chiesero di realizzare la scultura di Sant’Efrem il Siro, un santo del Quarto secolo della Siria che non era mai stato rappresentato prima in nessun modo, né in scultura né in pittura. Così ho letto la sua storia, mi sono documentato e in pratica ho inventato la sua iconografia, attenendomi a quanto avevo capito sulla sua vita.
Ho presentato il progetto in Vaticano, venne accettato e mi ricordo che mi dissero – Sei un ragazzo molto fortunato-, sì me ne rendevo conto. Non capita a tutti di mettere una propria opera in Vaticano. È stato bellissimo e bellissima è stata la cerimonia di inaugurazione, fatta tutta in aramaico. Un’emozione così forte da diventare difficile da descrivere”.

Ma tu Elias riesci a capire l’aramaico?
“Non tutto, solo qualche parola perché il mio dialetto in Siria ha una forte percentuale di parole in aramaico mischiate all’arabo. È una lingua antica e non si studia quasi più. Purtroppo si sta perdendo ed è rimasta solo nella liturgia della chiesa”.
A Roma, se non sbaglio, c’è anche un’altra tua opera realizzata per il giardino della Chiesa dei Siri cattolici, in Campo Marzio.
“Si, praticamente si trova dietro Montecitorio. Mi hanno chiesto una fontana che avesse per tema un viaggio che mettesse in collegamento il rapporto tra la Siria e Roma. Ho quindi messo assieme una combinazione di cose partendo da una dea della sorgente dell’antica Siria precristiana reinterpretandola con un omaggio alla dea Roma, con un’anfora in mano che getta acqua. La base è una barca che simboleggia il Mediterraneo ma al contempo è anche un forte simbolo della cristianità. La barca ha poi come una sorta di macchia fatta dall’acqua del mare che ha la forma del mar Mediterraneo e dietro ci sono le due vele rappresentate in bassorilievo su un disco spaccato a metà da una venatura naturale del marmo che raffigura la divisione tra occidente e oriente”.

Prima di salutarci ti chiedo: ma cosa c’è di straordinario nel tuo ordinario?
“Io ho la fortuna di lavorare tantissimo ma di non lavorare. Io faccio la cosa più bella e divertente del mondo. Il mio ordinario è sempre bellissimo e sono sempre emozionatissimo nello star lì a scolpire e vedere cosa riesco a creare. Non è mai un lavoro o una cosa ordinaria e noiosa ma ogni giorno è emozionante”.

A presto Elias e grazie per averci spalancato le porte del tuo studio e del tuo animo. È stato emozionante sentirti parlare di scultura e di bellezza con tanta passione e spero lo sarà anche per chi leggerà questa intervista.

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