Oggi parliamo dei pioppi, di quanto siano belli e di quanto dovremmo esser felici di averli attorno.
Il miglior amico di questi alberi è il vento, ad ogni suo passaggio questi lo salutano sussurrando e muovendo le foglie; quando riparte, il vento ringrazia prendendo i loro semi e portandoli in giro per il mondo alla scoperta di nuove terre da conquistare.
È una specie pioniera e ama viaggiare.
Il pioppo non ha mai goduto di grandi protezioni dall’alto, le maggiori divinità avevano altri alberi a rappresentarli, eppure è sempre stato molto amato dagli uomini.
Oggi scopriremo come Leonardo da Vinci, Monet, Alexander Calder e Federico Fellini fossero, ognuno a modo proprio, grandi estimatori di questo albero.
Quasi sempre la nostra capacità di apprezzare ciò che abbiamo attorno è inversamente proporzionale alla sua quantità. Più una cosa è rara e più crediamo al suo valore, e viceversa. Facciamo degli esempi: il caviale, sarà anche buono, ma lo è ancor di più sapendo che ce n’è poco. Il tartufo segue la solita logica, provate – se potete – a mangiarne un po’ tutti i giorni e vedrete l’apprezzamento nei suoi confronti subire un inevitabile calo.
Succede anche in altri settori, prendiamo quello energetico; attorno a noi abbiamo moltissime fonti di energia, alcune rinnovabili, altre invece destinate a consumarsi in fretta; ovviamente ci siamo innamorati pazzamente delle seconde. Si è sempre saputo che il petrolio fosse limitato, eppure ci scanniamo da decenni solo per metter le mani sulle sue ultime gocce.
Se il sole fosse una divinità, sarebbe divertente vederne la faccia nel momento in cui dovesse scorgerci nei nostri atteggiamenti da grandi ecologisti solo per essere riusciti a installare qualche pannello solare. Sembra impossibile, ma noi direttamente con l’energia che regola tutta la vita sul pianeta, riusciamo a malapena a fare la doccia; a pensarci è veramente una roba da matti.
Ci sono anche aspetti positivi: possiamo solo migliorare.
Una certa difficoltà nell’apprezzare ciò che abbiamo attorno si ritrova anche rivolgendo lo sguardo al mondo degli alberi. Spesso specie lontanissime e poco diffuse ricevono ampie lodi; altre, che invece crescono in cortile, spontaneamente e senza aiuti da parte nostra, vengono messe in secondo piano.
Al pioppo è toccata questa seconda sorte, è un albero molto bello e altrettanto utile, eppure la sua bellezza e la sua importanza non ricevono grandi apprezzamenti; dopo aver riflettuto su questa cosa, ho deciso di prendere le difese di questo albero meraviglioso; merita di essere rivalutato e di far luce su alcune incomprensioni di fondo che caratterizzano il nostro rapporto con questa pianta.
Già a partir dal linguaggio parlato, quantomeno riferendomi alle espressioni popolari che ho sentito in questa parte di Toscana (lucchesia), si capisce come qualcosa non torni; per riferirci all’immobilità di una persona o alla sua passività si può usare l’espressione star fermi come un pioppo.
Eppure, tra tutte le piante esistenti, è difficile trovarne una meno adatta per entrare in questa similitudine. Se c’è un albero che non sta mai fermo infatti, questo è proprio il pioppo. E si muove in tanti modi diversi. Il primo è quello che è sotto gli occhi di tutti, la straordinaria mobilità delle sue foglie. Già per la forma assomigliano – a seconda della specie e dell’età della pianta – a delle piccole mani, più scure su un lato, più chiare sull’altro; quando sono mosse dal vento creano un effetto visivo e sonoro meraviglioso. La specie di pioppo chiamata tremulo (Populus tremula) è la migliore in questa particolare specialità, ma anche le altre sono comunque in grado di offrire sensazioni molto appaganti. Non serve molto per godere di queste cose, basta passeggiare nelle vicinanze di questi alberi o – meglio ancora – sedersi un po’ approfittando dalla loro ombra; in poco tempo cominceranno a salutarvi e a cantare per voi, un dono non da poco.
Alexander Calder, uno dei più grandi scultori del XX secolo, ha indagato per tutta la sua vita la leggerezza della materia; in molte delle sue sculture alcune parti ricordano le foglie dei pioppi, e al pioppo stesso ha anche dedicato un’opera, “Aspen”, che in inglese significa pioppo.
Uno dei periodi in cui il pioppo è stato maggiormente apprezzato è stato nella seconda metà del XIX secolo. I movimenti pittorici basati sulla tecnica en plein air – come quello degli impressionisti, che dipingevano dal vivo – avevano portato i pittori a fuggire dai loro atelier per guardare il mondo in presa diretta. In Francia, in molti lasciavano Parigi per dedicarsi allo studio della natura nascondendosi nei campi delle campagne, lungo le rive dei fiumi o nella penombra delle foreste per studiare le sfumature che la luce produceva filtrando dai rami.
Potrebbe sembrare un semplice cambio di metodo nel lavoro di quei pittori, ma in realtà nasconde una delle più grandi rivoluzioni della nostra cultura; è la nascita della sensibilità moderna, di un nuovo approccio con la natura, quello che ancora oggi ci permette di apprezzarne tutta la bellezza senza passare dai filtri della storia, dell’ideologia o del mito. Volendo, ci possiamo ancora passare da quei filtri, ma anche no, possiamo scegliere, la natura adesso è bella a prescindere.
Ecco perché fino a quel periodo di pioppi nella storia dell’arte non se ne trovavano molti; la rappresentazione del paesaggio – quando consentita – era sempre sottoposta alla rappresentazione di un fatto storico o religioso. Venuta meno questa condizione, i pittori hanno cominciato a guardare il mondo per come si mostrava ai loro occhi, e sono rimasti incantati dalla bellezza sempre mutevole dei pioppi.
Claude Monet più di ogni altro ha omaggiato questo albero dedicandogli la celebre serie dei Peupliers, 23 tele che raffigurano in momenti diversi – della giornata ma anche dell’anno – i pioppi sul fiume Epte, presso Giverny. Monet nella sua vita ha realizzato quattro serie principali; i covoni, i pioppi, la cattedrale di Rouen e le ninfee. Il 1891 è stato l’anno dei pioppi; ogni giorno partiva da casa sua e – con la barchetta su cui dipingeva – navigava i due chilometri che lo separavano dal tratto del fiume dove si trovavano questi alberi. All’inizio dell’estate notò che i fusti erano stati marchiati, segno evidente che da lì a breve sarebbero stati abbattuti. Monet allora scoprì che il comune di Limetz, sul cui terreno si trovavano gli alberi, il 2 Agosto successivo avrebbe indetto un’asta per stabilire a chi vendere i pioppi; così andò a trattare con un commerciante di legname offrendosi di pagare la differenza rispetto a quanto questi avesse previsto di spendere pur di aggiudicarsi la trattativa. In cambio il commerciante avrebbe concesso al pittore qualche mese in più prima di tagliare gli alberi. Vinsero l’asta e in questo modo Monet riuscì a proseguire la serie, ma alla fine dell’estate un secondo evento rischiò di far terminare anzitempo il suo lavoro; la barca infatti si ruppe. Fu l’amico e collega Gustave Caillebotte – figura fondamentale nel successo del movimento impressionista – a salvare il futuro di questi capolavori prestando a Monet la propria imbarcazione. Finalmente a Novembre i lavori di ripresa in esterni erano finiti e così Monet potè terminare le opere in studio.
Purtroppo i pioppi poi furono tagliati, e questa è la parte della storia che mi è sempre piaciuta di meno, ma d’altronde non si poteva fare altrimenti.
Prima che si affermasse la pittura en plen air, al pioppo non erano toccate troppe fortune iconografiche. Aveva avuto però un momento di gloria durante la Rivoluzione Francese quando a segnalare l’avvenuta rivoluzione in una città o in un paese, veniva piantato proprio un pioppo nella piazza principale; ecco perché in Francia è chiamato l’Albero della Libertà. Tuttavia, non avendo una grande tradizione classica, e non essendo affiliato ad alcuna delle divinità principali – come la quercia, sacra a Zeus – il pioppo non si ritrova molto frequentemente nella pittura pre moderna.
Eppure la sua presenza nella storia dell’arte è stata costante, tanto che per secoli ha rappresentato la base stessa su cui si sono formati alcuni dei più grandi capolavori; in molti dei quadri realizzati dai pittori italiani del Rinascimento, quando si usa l’espressione olio su tavola, ci si riferisce spesso proprio a una tavola di legno di pioppo. Tra i tanti casi, anche quello che vedete sotto.
Del pioppo non si apprezza solo la qualità del legno o la mobilità delle foglie, ma anche la capacità di volare: letteralmente, per chilometri e chilometri. Fino a pochi decenni fa conoscevamo bene questi alberi, facevano parte della nostra realtà quotidiana quanto della nostra fantasia. Era il 1973 (ma la storia è ambientata nella Rimini di 40 anni prima) e Federico Fellini dedicava l’incipit di Amarcord all’arrivo della primavera che si annuncia in tutta la sua vitalità grazie alla presenza delle manine, i batuffoli bianchi e cotonosi (si chiamano pappi) che portano a spasso nel cielo i semi dei pioppi come fossero fiocchi di neve. È un attacco dolcissimo; la prima scena vede protagonista il vento che fa svolazzare delle lenzuola stese al sole al ritmo del suono delle campane, mentre i pappi danzano leggeri attorno. Nella seconda scena una signora appende dei panni a un albero e si rallegra nel vedere finalmente le manine arrivare, mentre un anziano dietro di lei ci ricorda – con l’accento sorridente romagnolo – il detto popolare che associa la vista delle manine all’uscita dall’inverno. Infine la terza scena, nel centro del paese: i bambini che impazziscono di gioia rincorrendo le manine: «le manine sono su e l’inverno non c’è più» dice uno di questi saltando per prenderne una.
Che meraviglia riscoprire che basterebbe così poco per emozionarsi e sentirsi felici anche solo per un attimo; i primi fiocchi di neve che annunciano l’inverno, i primi pappi che lo salutano congedandolo; gioie semplici, ma su cui fare affidamento, danno un ritmo alla nostra vita e lo fanno con leggerezza. Mica male. Credo che l’Oscar al miglior film straniero Fellini lo avesse già vinto dopo i titoli di testa accompagnati dalla musica di Nino Rota e queste tre rapide scene iniziali.
Non è un caso che i pappi siano stati scelti per aprire (e poi anche per chiudere) il suo film più autobiografico. I pioppi erano una presenza tipica dell’Emilia Romagna, una delle regioni in cui la pioppicoltura aveva avuto maggior successo. Sono passati tanti anni da allora e tante cose sono cambiate; in meglio o in peggio non lo so, ma sicuramente di pioppi ce ne sono meno e questo è un peccato. Nevica anche di meno, e pure questo è un peccato; non possiamo perdere in un sol colpo il rito di apertura e di chiusura dell’inverno, è un insulto alle stagioni, e alle emozioni.
Non potendo decidere se e quando far nevicare credo che dovremmo per forza tornare a piantar molti pioppi. La pioppicoltura tra l’altro era uno dei pochi settori della arboricoltura italiana ad andare benino, adesso invece la domanda supera di molto l’offerta e quindi importiamo dall’estero.
C’è chi teme i pioppi per le allergie primaverili, ma non sono loro i responsabili – i pappi sono composti da cellulosa pura, un materiale anallergico – bensì i pollini delle piante allergeniche come le Graminacee, le Urticaceae e le Fagaceae; tuttavia è facile che venga attribuita la colpa ai pioppi, i pappi si vedono bene mentre i pollini sono invisibili agli occhi. Ecco un altro pregiudizio di cui spesso questi alberi sono vittime.
In realtà la presenza dei pioppi porta quasi solo vantaggi, eppure è raro che queste piante ricevano gli onori della cronaca; uno dei motivi principali è la relativa brevità della loro vita, non fa impressione parlare di 300 anni quando querce, tigli o tassi raggiungono tutt’altri valori. Ma i numeri vanno interpretati e non sempre dicono tutto. E poi ci sono le eccezioni.
È vero che la vita di un pioppo può essere abbastanza breve rispetto ad altri generi, ma il suo sviluppo in compenso è molto veloce e tanto più rapido è l’accrescimento tanto maggiori saranno il rilascio di ossigeno e la sottrazione di anidride carbonica; possiamo usare un’immagine semplice che rende bene l’idea: il pioppo cresce correndo, quindi respira molto rapidamente. E noi ne beneficiamo direttamente. Gli amanti dei numeri possono trovar soddisfazione nel sapere che un pioppo in crescita attiva preleva dall’atmosfera tra i 70 e i 140 litri di anidride carbonica l’ora, rilasciandone altrettanti di ossigeno. Gli effetti positivi sono anche sulle acque, il pioppo beve parecchio, per questo si ritrova spesso vicino ai corsi d’acqua; da qui la prende e la filtra ripulendola dagli agenti inquinanti e nocivi e rilasciandola depurata in modo che possa tornare alla terra in condizioni migliori di come era arrivata.
Gli effetti benefici dei pioppi si avvertono anche sul micro clima; la loro capacità di far evaporare molta acqua favorisce le piogge nei momenti di siccità.
Questa è una cosa che gli alberi fanno in continuazione e da sempre, anche se non viene troppo considerata. Però è di importanza fondamentale per il nostro pianeta.
Tutta la pioggia che cade proviene dall’evaporazione marina. Fino a che ci troviamo nei pressi delle coste non è strano che quest’acqua si ripresenti sotto forma di nubi e poi di pioggia. È allontanandosi dal mare che questo fenomeno diventa più complicato; le nuvole infatti si scaricano e terminano presto la loro scorta di acqua; più il vento le ha allontanate dal mare e meno è probabile che sia questo a mandare i rinforzi. Ecco che adesso intervengono gli alberi, attraverso la traspirazione rimandano in cielo l’umidità necessaria affinché le nuvole possano ricaricarsi. È un ciclo – il ciclo dell’acqua – in cui gli alberi hanno il ruolo attivo di pompe di ricarica per le nuvole. Sono i loro autogrill dove mettere benzina, senza di questi il ciclo dell’acqua si fermerebbe e così anche la nostra vita.
Infine, torniamo un attimo sulla breve vita dei pioppi, occorre aggiungere una piccola nota.
Nello stato dello Utah (USA) si trova un parco, il Fishlake National Forest. All’interno di questo parco si trova un bosco, si chiama Pando (dal verbo latino pandere, estendere). Questo bosco è formato da una colonia di pioppi (Populus tremuloides) che oltre per la bellezza è famosa per un altro motivo: si tratta di una delle più antiche forme di vita esistenti sul pianeta. Il bosco infatti non si è costituito per riproduzione sessuale ma per propagazione vegetativa; è un concetto semplice, anziché esser nati da un seme, questi alberi sono l’equivalente dei polloni emessi da tutti i castagni, faggi e tigli che troviamo attorno a noi. Di conseguenza non si tratta di nuovi alberi ma dei soliti che continuano a crescere grazie alle medesime radici. Dall’analisi effettuata sui singoli pioppi del parco è risultato che avessero tutti identico dna, a conferma che si tratti della solita pianta.
Al momento attuale si stima che l’apparato radicale di Pando sostenti oltre 40 mila fusti, per un peso complessivo di oltre 6 mila tonnellate; si tratta del più pesante organismo vivente conosciuto.
L’età delle radici invece è stimata in circa 80 mila anni.
Non male per un albero la cui aspettativa di vita è sempre stata considerata scarsa.