Carla delle ombre

Un’artista specializzata in una disciplina millenaria. Una passione vissuta tra il Veneto, la Tuscia e il resto del mondo. Burattinaia, attrice e musicista, ecco Carla Taglietti, la giovane ombrista padovana che ha scelto per professione un mondo fatto di tenebre, luci e natura.

Carla, come possiamo spiegare ai lettori de L’Ordinario qual è il tuo mestiere?

Attrice, burattinaia, ombrista, formatrice, narratrice. Assieme a Valentina Turrini mi occupo di teatro per ragazzi e di formazione con la compagnia “Le Strologhe”, tra l’altro. Puoi scegliere. Ombrista mi piace, però. Sono indubbiamente sempre stata affascinata dal teatro di figura tanto da essere diventata una burattinaia (a Cervia, presso L’Atelier delle Figure della Cooperativa Arrivano dal Mare). Ma da alcuni anni sto indubbiamente approfondendo la conoscenza del teatro delle ombre, formandomi con il TeatroGiocoVita di Piacenza, con il collega Norbert Gotz in Germania e altri laboratori in giro per il mondo.

Come si diventa un’ombrista?

Seriamente? Non lo so. Il percorso artistico che mi ha portato fino a qui è stato estremamente vario e, per la cronaca, preciso che non sono solo ombrista ma anche attrice e narratrice. Non ho una scuola o un’accademia alle spalle. Ho sempre seguito laboratori delle più svariate tecniche artistiche, oppure che mi interessavano, che mi incuriosivano; mi sono formata con vari maestri e maestre e ho incontrato sulla mia strada esperienze anche distanti tra loro. Poi, credo sia successo che è stata la mia sensibilità ad unirli tutti nella creazione di spettacoli di ombre. Ho messo tutto assieme. Sono state tante le strade che mi hanno abitata. A questo punto il lavoro è unire questi percorsi per trovare il mio stile.

Perché le ombre?

Perché è un linguaggio diretto. Perché nella sua assoluta semplicità, anzi essenzialità, c’è profondità. Può coinvolgere il linguaggio classico, il teatro di parola, ma può anche solo comunicare tramite immagini e per me si avvicina molto alla poesia. Forse anche qualcosa di più, perché se ci penso c’è qualcosa di spirituale nel teatro d’ombra. Sia come performer che come pubblico hai continuamente a che fare con qualcosa che “non c’è”, con una figura che appare e scompare, che non esiste fisicamente. E per lasciare spazio a questa presenza devi un po’ cercare dentro di te, no? Però vorrei contraddirti su una cosa: il mio non è, paradossalmente, un lavoro “ombroso”. Piuttosto il mio spazio scenico è costituito da luce. Ed è con lei che creo le ombre. Senza la luce non può apparire l’ombra. Parte della ricerca artistica è focalizzata sulle sorgenti luminose, sulle loro particolarità, e non sulle ombre. Per esempio l’installazione ”Dance Box” (che ho portato al Festival Mondial des Theatres de Marionettes di Charleville-Mézières) è una tecnica di riflessione della luce.

Partiamo dalla fine. Negli ultimi 6 mesi della tua vita c’è stata un’esperienza al Lìzé Puppet Art Colony a Taiwan (un polo culturale con sede ad Yilan totalmente dedicato all’arte delle marionette). Racconta come è andata.

Beh è un’esperienza che ho cercato a lungo. Prima dell’estate ho fatto domanda per seguire un progetto di ricerca “in residenza” che mi interessava ed è andata bene. Quello che ne è uscito è stato uno spettacolo finale di teatro d’ombre con l’ausilio di tecniche diverse e diviso in 4 quadri poetici, uno dei quali è “Tutta Sola” (che potete vedere in questa pagina) che ho riproposto recentemente in un festival in Germania. Sono partita per Taiwan con un’idea che da tempo, da anni vorrei dire, mi girava nella testa: quella della presenza dentro ciascuno di noi di demoni e mostri che ci fanno paura e che quindi istintivamente combattiamo ma che alla fine si rivelano essere nient’altro che una parte di noi stessi con cui forse dobbiamo riconciliarci. La mia idea iniziale era quella di lavorare con grandi sagome come i danzatori tailandesi nel Nang yai, ma non funzionava. Appena arrivata a Taiwan le suggestioni locali come le loro maschere tradizionali mi sono sembrate il mezzo ideale per esprimere questo concetto ma non ero ancora soddisfatta. Alla fine sono entrata con il mio corpo nella scena, per dialogare con le ombre e la musica. E si è creata come una danza di luci e ombre che credo mi rappresenti molto.

Come nasce uno spettacolo “d’ombre”?

Non nell’ombra! Anzi, direi sotto il sole e in mezzo alla natura. Un allenamento utile per me è la pratica della meditazione camminata. Niente di più. Per fare spazio alla creatività, a mio avviso, bisogna far silenzio e lasciare andare i pensieri. Passeggiare in mezzo alla natura ha proprio questo scopo: mi pulisce e mi permette di aprirmi ad eventuali ispirazioni. Che in realtà forse erano già dentro di me ma aspettavano di risorgere. Ecco.

Quando e come è nata questa passione?

Quando ero piccola la sola esperienza di entrare in un teatro, sedermi in platea e attendere una storia era quasi un momento sacro, come entrare in una chiesa. Ero quasi annichilita da questa bellezza che mi esplodeva dentro. Poi come tutti i bambini ho cominciato facendo spettacolini per la famiglia. Io mi ricordo che usavo le ombre. Mi ricordo ancora la storia di un camaleonte che io e una amica abbiamo costruito e interpretato.

Parlami dell’esperienza del TeatroNatura, un genere legato strettamente a Sista Bramini e alla sua compagnia che effettivamente hanno letteralmente incrociato la tua strada professionale ad un certo punto.

All’università (io ho frequentato il DAMS a Bologna) ci sono stati una serie di incontri che hanno segnato la mia vita professionale, come il teatro dell’Ariette che faceva spettacoli con il il cibo e poi c’è stato O Thiasos TeatroNatura con Sista. L’impatto me lo ricordo ancora: un laboratorio di 4 giorni intensivi, notte compresa in cui si lavorava e si faceva esperienza del silenzio. All’inizio è stato strano ma poi ho capito il grande insegnamento nascosto dietro: il vuoto piano piano ha lasciato spazio agli altri suoni, quelli della natura, del mio corpo. Si sono aperti canali percettivi differenti che l’uomo ha, in quanto animale, ma che deve sopprimere in quanto creatura sociale. Poi l’intera esperienza con il TeatroNatura è stata (ed è) infinitamente più complessa ma questo insegnamento sul silenzio si è trasformato, per me, come in una disciplina, in un training che, come ti raccontavo prima, diventa la base per raccogliere idee per uno spettacolo, o prepararsi ad esso.

Ora che ruolo occupano la natura e l’ambiente nella tua professione?

Anche se sembra poco “artistico”, da piccola ho frequentato gli scout che mi hanno dato (con tutti i loro limiti) la possibilità di vivere mille avventure nella natura. L’andare nel bosco, vivere il buio e il cammino tra gli alberi con tutte le sue implicazioni misteriose mi ha profondamente segnata come persona. Gran parte della mia vita, attuale e passata, è legata al ciclo naturale e mi dicono che si percepisce nei miei spettacoli. Sai cosa ho fatto negli ultimi 15 giorni? Ho raccolto le olive. E per me è un’attività “ordinaria” perfettamente coerente con il mio essere artista, con la mia vita, con le mie scelte. Come la musica, il training professionale e il canto. Ho scelto di vivere in una campagna profonda, a Vetralla, nella Tuscia e distante dalla città. Viaggio molto ma quando torno a casa l’idea di vedere il tramonto di fronte a casa, in mezzo ai miei ulivi è, mi rendo conto, un cardine della mia esistenza. Anche professionale. E’ quella luce che ti rianima e in cui ti identifichi. E forse è quella luce – che poi è per me la felicità – che cerco di replicare, nella compagnia immancabile delle ombre, con i miei spettacoli.

C’è un prezzo che hai pagato per vivere il tuo sogno e la tua vocazione?

No. Assolutamente. Sono felice nonostante la mancanza di certezze endemica nella mia professione. Più che altro ho delle amarezze di fondo, ovvero che in Italia, il mio mestiere non è nemmeno considerato tale. Una domanda che mi viene spesso rivolta è “Si, a parte il teatro, ma per vivere cosa fai?”. Ecco io vorrei che la mia scelta fosse considerata e rispettata come normale, ordinaria.

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