Don Pasta, il cooking dj che salva la cucina italiana

Musica, cucina e tradizioni popolari. Ma anche Pasolini, Artusi, Clash e Rolling Stones. La nostra intervista a Daniele De Michele, alias Don Pasta, il cooking dj salentino che ha trasformato la cultura gastronomica italiana in uno spettacolo.

Daniele De Michele è un nome che, a tutta prima, può non dire nulla. Diverso se parliamo di Don Pasta. Scrittore, dj, economista e ricercatore, ora Don Pasta è anche regista. Recentemente a Venezia ha presentato il documentario “i Villani” in cui, attraverso quattro storie, parla di agricoltura, pesca, allevamento, della trasformazione delle materie prime e della cucina familiare. Quattro racconti costruiti attorno al rispetto delle regole secolari dell’ambiente ma illegali per la visione dominante e la legislazione moderna.

Il documentario è il concentrato della sua lunga esperienza, iniziata da bambino in Salento, a contatto con la cucina familiare e popolare, e poi maturata in Francia in un locale etnico di Parigi, dove De Michele si era trasferito per completare gli studi universitari in economia. Nel “Jungle Montmartre” gestito dalla comunità senegalese, Daniele ha cominciato facendo semplicemente il dj. Poi venne l’idea di cucinare suonando (in genere jazz e soul). Poi venne il nome Don Pasta. Da questo sono nati spettacoli, libri e ora, appunto, il documentario.

Considerato dal New York Times come “uno dei più inventivi attivisti del cibo”, Don Pasta non è esattamente una persona “ordinaria” ma sorprendentemente si occupa e racconta cose che erano ordinarie sino a pochi anni fa mentre adesso sono assolutamente “fuori dalla norma”.

La prima cosa che mi viene in mente è che tu sei anche un economista e che la cucina di cui parli era davvero una cucina fatta rispettando e creando una vera economia, cosa che ora mi pare abbiamo completamente perso, o forse, meglio, abbiamo perso la consapevolezza che mangiando si fanno scelte economiche.

Ci sono due cose da trattare. La prima è l’economia domestica. La cucina italiana è costruita sull’economia domestica, in modo letteralmente coercitivo. Quello c’era e quello ti mangiavi. Fortuna vuole che il popolo (e non solo quello italiano) è storicamente dotato di grande fantasia, così quel poco che aveva se lo cucinava con mille varianti. La cucina autarchica si basava su una filiera familiare che partiva dall’orto, per passare agli animali da cortile, per arrivare alla cucina quotidiana e alle conserve. Nulla si gettava e tutto si trasformava. La violenza con cui si è passati da questo tipo di economia alle conserve congelate ha lasciato danni devastanti. La seconda parte della domanda, cioè quella della consapevolezza, risponde a questa epoca, dove in tanti (anche se ancora pochi in percentuale) si assumono la responsabilità di acquistare sapendo l’impatto sull’ambiente e sul lavoro che ogni scelta determina.

Parlare con te mi fa venire in mente l’antropologo Boni e l’idea dell’homo faber contro l’homo comfort in cui ci siamo trasformati (la trasformazione da uomini che fanno e costruiscono ad uomini che acquistano solamente ndr). E da li a Pasolini il passo è breve, ecco la cucina è il primo passo per una cultura resistente, per un riappropriarsi delle nostre capacità?

La cucina, come l’agricoltura popolare ha subito una vera e proprio alienazione marxista. E’ stata tolta al popolo la sua capacità di autodeterminazione dei sapori, degli ingredienti, delle ricette. Dai sementifici industriali alla comunicazione si passa sempre più per una idea globalizzata, precettizia mercantile del cibo. Cosa c’era prima? Una intelligenza collettiva e individuale basata sull’osservazione della realtà. Togliere la zappa e dare i fertilizzanti significa eliminare quel processo proprio dell’homo faber che è un processo cognitivo puro, per poggiarsi nell’area del confort che di fatto ti aliena un modo indipendente del pensare.

Altra cosa: tu hai unito cucina e spettacolo ricreando un po’ le antiche feste (da Dioniso alle sagre popolari). Ora sempre più in tv la cucina è diventata spettacolo ma ho la sensazione che sia come un porno gastronomico. Guardi cose che sono irreali e che al massimo vanno bene per masturbarsi

La cucina l’ho sempre pensata (perché appresa) come dono, come fatto liturgico e comunitario. Mai avrei pensato che in una cucina quotidiana ci fosse spazio per un onanismo tecnico, una ostentazione del saper fare. Le nonne erano talmente indaffarate a fare tanto, il più possibile, figurati se pensavano a sfoggiare. La perizia tecnica era un fatto istintivo, appreso da piccoli nella osservazione. I miei spettacoli sono punk quanto una nonna che guarda con disgusto un pisello surgelato. Riportano dunque lo spettatore agli elementi primari del cibo, il nutrimento per sfamarsi e il nutrimento rituale.

Tu hai scelto di vivere in Francia: affinità culturali, o come per molti intellettuali e artisti, perchè in italia è molto complicato fare un lavoro culturale?

La Francia è stata un po’ figlia di una infatuazione giovanile per la letteratura. Poi l’amore mi ha portato a sceglierla come luogo di residenza. Ora in verità vivo a cavallo tra le due nazioni. Posso dire che la ricerca artistica nasce e cresce in Francia, dove la cultura resta il collante democratico per eccellenza. L’idea di cucina sociale, mediterranea, politica, ambientalista ha colpito molto gli attori culturali di Tolosa, dove ho vissuto per quasi dieci anni. Quindi molti dei miei progetti hanno una genesi interamente francese, perché in Francia è nei fatti più facile essere artisti, nella misura in cui quel tuo mestiere lo apprendi con professionalità e applicazione.

La mia sensazione è che la Francia abbia venduto un po’ meno l’anima contadina e tradizionale di quanto non abbiamo fatto noi.

Sulla cucina devo sconfessarti. L’industrializzazione delle campagne voluta da De Gaulle nel dopoguerra ha tolto dalla fame tantissima gente, ma ha creato una cesura drammatica nella cultura popolare, che noi non abbiamo avuto (ed è stato paradossalmente un bene). Dal canto loro, in Francia, ci sono però movimenti ambientalisti meglio organizzati, una filiera commerciale alternativa (AMAP) meglio strutturata e una capacità di valorizzazione della gastronomia che non ha pari al mondo.

Veniamo al documentario. Quanto lavoro hai fatto per trovare le 4 storie che hai raccontato e quante storie ti sarebbe piaciuto raccontare e non hai potuto?

Fare quel film è stata una tortura. Dopo cinque anni in cui ho viaggiato in tutta Italia ho un archivio di centinaia di nonnine e nonnini, contadini e pescatori. Il film inizialmente era pensato come un fatto corale, come una costruzione a mo’ di puzzle che univa in modo assai rock’n’roll nonnine e militanti, pastori e pescatori, contadini e allevatori. Ma ho appreso nel farlo che il cinema ha bisogno di archetipi per funzionare. La scelta è stata durissima e legata a una necessità direi quasi statistica di raccontare l’Italia: uomini e donne, giovani e anziani, pastori, pescatori, contadini, nord e sud. Ho scelto le figure che più di fondo vivevano in modo dinamico il dramma e la bellezza dell’aver fatto una scelta controcorrente. Vivere una giornata con loro dall’alba al tramonto rende profondamente l’idea di come viva la totalità della gente che fa quei mestieri. Questo era l’obiettivo e pare sia riuscito.

Infine “Artusi Remix” (il ricettario della cucina popolare edito da Mondadori Electa): cosa ti è rimasto di quel viaggio lungo l’Italia a caccia delle ricette popolari?

Ho scoperto le infinite variabili che l’essere umano è capace di darsi con tre ingredienti. L’orgoglio e la dignità di questa gente di accoglierti e farti vivere con loro un momento importante che è quello di un pasto fatto con amore. Queste persone lo facevano con una sorprendente cognizione del loro stare al mondo. Erano al corrente di quali fossero le forze in atto, i meccanismi macroeconomici che aggredivano il loro esser naufraghi di una cucina che non c’è più, e di quali fossero le difese da mettere in atto. La prima difesa, la più potente: l’identità, la certezza della loro storia e della loro sapienza.

Ultima cosa un giochino per chiudere, se ti va , la colonna sonora giusta per cucinare i tuoi 5 piatti preferiti

Ti cito cose scritte negli anni: parmigiana e “A love supreme” di Coltrane; polpo in pignatta e “London calling” dei Clash; trippa alla romana e Rolling Stones; cous cous di pesce alla trapanese e Primal Scream; polenta di farina di castagne e stufato di maiale e Nick Cave con Murder Ballads.

A questo punto tirate fuori le pentole, cucinate, mettete su i cd (o se possibile i vinili) e vedete che effetto fa.

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