Mario, deportato a 17 anni, poi autista per il Reich, la Russia e il ritorno a casa

“Magari qualcosa, una moneta che cade, un piccolo braccialetto che si impiglia alla maglia di qualcuno, uno scontrino che scivola via, cambia il destino di una persona. E quella persona, per un piccolo, banalissimo gesto, non farà più le stesse cose che avrebbe fatto invece se quel gesto non si fosse verificato. E la sua vita prende un altro binario. Magari per sempre. Magari per un po’ soltanto. Chissà”.
(Stefano Benni)

Se ci fermiamo un attimo, un attimo solo, possiamo immaginare come la nostra vita avrebbe potuto prendere una piega diversa se quel particolare avvenimento non fosse accaduto o se un giorno fossimo saliti su un treno piuttosto che su un altro.

Proprio in questi giorni abbiamo avuto la fortuna, o forse il destino voleva che raccontassimo questa storia, di incontrare Mario Bellazzini, un signore spezzino di 92 anni. La sua vita di ragazzino un po’ incosciente è cambiata fatalmente un pomeriggio del giugno 1944 quando, insieme al fratello Renato, era in cerca di bossoli.

Mario Bellazzini oggi

Ma partiamo dal principio.

Mario ci accoglie nella sua casa sulle collina di Amoa, una località della provincia spezzina, insieme alla moglie Rina, la figlia Graziella  e la nipote Elena. Abbiamo scoperto che sta cercando alcuni amici con i quali ha condiviso un periodo di prigionia in Germania durante la seconda guerra mondiale, noi cercheremo di dare una mano a lui che in cambio ha accettato con entusiasmo di raccontarci la sua storia.

Era il 29 giugno del 1944, gli aerei americani sganciano bombe sul deposito munizioni tedesco di Vallegrande, una vallata dove ora sorge la Centrale dell’Enel. Il boato fu assordante, talmente forte che scosse tutte le case delle colline vicine, anche quella dove Mario viveva con la sua famiglia, sulla collina dell’Amoa, poco lontano dal deposito.

Il bombardamento del deposito di Vallegrande Credit_PontremoliToday.jpg

Mario è un ragazzino di appena 17 anni, incurante del pericolo, così, insieme al fratello Renato, decide di andare tra le macerie a cercare i bossoli dell’esplosivo, un prodotto molto ricercato sul mercato nero in quel periodo di miseria e guerra.

Mentre si aggirano tra le rovine vengono sorpresi da una pattuglia tedesca e scambiati per partigiani.

A nulla servono le grida e le giustificazioni: Mario e Renato vengono immediatamente imprigionati al comando tedesco sul Passo della Foce (Sp); da lì, con un processo sommario, vengono incarcerati nella prigione della Brigata Nera di Villa Andreini.

Nessuna possibilità di parlare con la famiglia, nessuna comunicazione, nessun contatto con l’esterno; i due ragazzi rimangono isolati da tutti per 35 giorni. L’angoscia su quello che li attende è pesante. Una mattina Mario viene caricato su un camion con destinazione Carpi, il fratello invece resta nel carcere ed è senza una mano, per i tedeschi sicuramente un soggetto inutile.

Inizia così per Mario un viaggio al freddo, spaventato e senza alcuna certezza sul futuro. Da Carpi un nuovo cambio, destinazione Verona, una delle tre città (le altre erano Bolzano e Fossoli) nelle quali sono stati allestiti dei campi di raccolta intermedi prima della destinazione finale di Auschwitz .

Mario forse non ha ancora ben compreso che proprio su quei binari si sta giocando il futuro della sua vita. Tutto dipende dal treno sul quale verrà fatto salire, un semplice vagone lo potrebbe portare verso la morte. Ma il destino ha in serbo un copione diverso, Mario sale sì su un convoglio, ma è sul binario a fianco che c’è un altro treno, dove salgono altre persone: mamme, figli, padri, un’intera umanità che non farà mai più ritorno.

Il treno di Mario inizia il suo viaggio, campagne e piccoli villaggi scorrono fuori dal finestrino, la sua destinazione non è Auschwitz ma una città tedesca di cui non ricorda il nome. Viene trasferito per un mese in un campo di lavoro, giusto il tempo di costruire un rifugio. Gli attribuiscono un numero e una baracca nella quale dormire, non lo trattano male, c’è cibo a sufficienza. Mario scopre che sia lui che gli altri nove compagni sono stati registrati come volontari.

Sono giovani, la Germania di Hitler ha bisogno di giovani e così vengono nuovamente spostati. Arrivano in Olanda, qui resteranno un mese, sono in dieci e a tutti viene data la possibilità di prendere la patente per la guida dei camion.

Diventeranno i nuovi autisti al servizio del Reich.

Mario ricorda questo come uno dei periodi più difficili, file di camion dirette a Berlino, Stettino, Danzica e infine Pilau in Polonia. Hanno appena diciotto anni e si trovano al fronte, con una fila di camion tra due eserciti che si fronteggiano. I Tedeschi da una parte e i Russi dall’altra e loro in mezzo mentre le granate esplodono da una parte e dall’altra.

I Russi sono molto forti e più organizzati, spazzano via le ultime resistenze tedesche. Le truppe del Reich scappano, abbandonando Mario e i suoi compagni, nessuno vuole quei dieci ragazzi, che restano per lungo tempo nascosti in uno scantinato. Poi diventa troppo pericoloso, e,a questo punto, l’unica scelta è partire.

Mario ricorda di aver percorso 150 chilometri a piedi, in tutto venti giorni di cammino. Al freddo, con la fame e la paura di morire ogni momento. Lungo la strada si mangia tutto ciò che si trova, senza considerare se sia commestibile oppure no.

Quando arrivano a un primo campo di smistamento Mario ha preso il tifo, resta per lungo tempo ricoverato nell’ospedale del campo, è il mese di luglio del 1944. Gli Americani sono rapidi a rimpatriare i propri militari, l’Italia invece è totalmente disorganizzata, occorrerà aspettare il 10 settembre del 1945 prima che i dieci amici possano cominciare il viaggio verso casa.

Dalla Polonia fino a Berlino e poi Innsbruck e finalmente Verona, da qui con i treni Mario arriva a Genova e infine con un camion fino alla Spezia.

A piedi sale sulla collina fino a casa sua, pesa solo 45 chili. C’è suo fratello Gustavo (che ora ha 98 anni) e la sua mamma; Mario scopre che il suo papà e suo fratello Renato sono morti. Impossibile descrivere quello che prova. Tutti lo credevano morto e invece, a discapito di tutto, la ruota del destino ha girato diversamente da quello che poteva essere scontato.

Oggi che ha 92 anni, Mario sente il desiderio di ritrovare due persone che hanno fatto parte di quegli anni terribili, due di quel gruppo di dieci ragazzi che la Germania aveva deportato per farne degli autisti al servizio dell’esercito tedesco.

Francesco Palmerini in una foto d’epoca

Due amici, entrambi di Viareggio: uno si chiama Egisto Venturini (all’epoca abitava in Via Nazario Sauro) e l’altro Francesco Palmerini (abitante in Via Montramito).

Purtroppo Francesco non c’è più, all’appello di Mario hanno risposto le tre figlie dell’amico Cristina, Lina e Simonetta. Il papà era stato deportato in Germania a soli 19 anni ed è morto nel 2005.

Mario ci mostra le fototessera, proprio quelle che i tedeschi gli avevano scattato appena presa la patente, riportano il numero di matricola assegnato a ciascuno. Ci fa vedere la foto di Egisto, magari lui è ancora vivo.

Una foto d’epoca di Egisto Venturini
Il retro della foto di Egisto Venturini

Amici di Viareggio e amici dell’Ordinario ci date una mano e insieme cerchiamo di aiutare Mario?

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