Le idee si sparpagliano un po’ ovunque, mentre accolgo la carezza tiepida del vento pomeridiano sul viso. Non riesco a quantificarne il numero, ma ce ne sono molte, e ognuna di esse mi invita a seguirla in un luogo vergine e sconosciuto.
Un classico, penso, mentre sorrido, schermandomi gli occhi per resistere alla luce intensa del sole che inizia la sua lenta discesa verso i margini gentili delle cime appenniniche, che sfumano in lontananza.
Siedo su di una coperta posata su uno spiazzo di erba soffice, localizzato sulla sommità di una collinetta erbosa che guarda il mondo da una certa altezza.
In lontananza, le cime del Giovo, del Gomito e il Libro aperto, osservano ogni mia mossa e forse mi riconoscono, perché i miei occhi su quelle vette lontane ci indugiano sin da quand’ero un bambino che si faceva un sacco di domande sul mondo.
La posizione prominente mi permette di lasciar correre lo sguardo su prati verdi e rigogliosi, interrotti da alcuni casolari e da pascoli popolati da mucche che brulicano serene godendosi il tepore dell’ultimo sole.
A breve, dal fondovalle, salirà la sottile bruma che precede il crepuscolo portando in seno fragranze antiche, mai del tutto dimenticate.
La presenza dell’uomo, da queste parti, è ancora modesta, lo amo anche per questo l’Appennino.
Quando decido di alzarmi, lo faccio un po’ a malincuore, perché è un luogo calmo e accogliente, dominato da una luce calda, che non scotta.
Mi scappa un sorriso mentre completo l’operazione, e mi stiro lievemente dopo essermi alzato in piedi.
Correre dietro a un’idea è sempre una faticaccia, ma è anche un’avventura in grado di regalarmi una storia.
Tra tutte quelle possibili, ne scelgo una in particolare che mi pare promettente.
Ha un colore simile al cobalto, e danza in maniera un po’ scomposta, allontanandosi progressivamente dalla mia vista.
Rischia di sfumare se non mi muovo, e allora arrotolo la coperta, la infilo nello zaino, e punto quella cosa indefinita che aleggia ai margini della mia mente, sperando che riesca ad avvicinarmi in modo da riuscire a concretizzarla in un pensiero più articolato.
Dietro alle mie spalle, il Monte Cimone domina silenzioso l’arco appenninico. Con i suoi 2165 metri è la vetta più alta dell’appennino tosco emiliano. A guardarlo dal basso non incute il timore reverenziale che capita di sperimentare posando gli occhi su alcune montagne. È un massiccio dai fianchi rotondi e dai contorni molli e leggeri, ricoperto interamente da un sottile strato d’erba che muta lievemente di tonalità a seconda delle stagioni.
In cima sono salito un paio di volte e ricordo, in particolare, l’ultima, che risale già a una quindicina di anni fa.
Era un giorno terso d’autunno, arrivai in vetta prima delle dieci del mattino.
La vista di cui si gode da lassù è unica nel suo genere e abbraccia letteralmente mezza Italia.
Il mar Tirreno brillava in lontananza, oltre le vette acuminate delle Apuane che lasciavano alla vista il giusto spazio per godersi il profilo sinuoso della Liguria, da un lato e, dall’altro, l’arcipelago Toscano, punteggiato dalle sue Isole, perfettamente riconoscibili.
Sullo sfondo, simile a un gigante lontano addormentatosi su quel nastro di seta calmo e azzurro, stava la Corsica.
Spostando lo sguardo verso nord, oltre la foschia che sempre ammorba la pianura padana, le creste dell’arco alpino, incoronate già dalla prima neve, sfavillavano in un cielo cobalto che, a quell’altezza, ha un colore assai più vivido che a livello del mare.
Non ho ancora smesso di correre su quella collina.
A volte ho bisogno di riprendere fiato e riposarmi, ma lo faccio quando è buio, di solito, e comunque mai prima di aver visto qualche stella prendere il suo posto nel firmamento.
Qualche idea buona riesco pure ad acchiapparla di tanto in tanto e stasera una sono arrivato a sfiorarla, prima che mi sfuggisse di nuovo, approfittando del bosco fitto che ricopre le pendici appenniniche per nascondersi.